martedì 1 settembre 2009

COSI' INIZIA LA STRADA DI CASA

Novembre 2005 Anna non aveva chiuso occhio quella notte. Si era
addormentata tardi, svegliandosi di continuo mentre
la sua mente ripeteva all’infinito gli accadimenti di
quella giornata senza darle un attimo di tregua e,
adesso, cammina sotto la pioggia verso la clinica,
qualche minuto prima dell’orario consentito per le
visite.
Tutto, a parte quell’anticipo d’inverno nell’aria ed il
cielo grigio di pioggia è esattamente come il mattino
precedente: uguale la sua macchina parcheggiata nel
vialetto, poco lontano dall’ingresso dell’ospedale,
uguale i volti di coloro che incontra, il giornalaio che
sistema in ordine i quotidiani, i commercianti che
aprono sbadigliando le saracinesche dei loro negozi,
uguali gli alberi del parco che, muti e spogli,
attendono il passare del tempo.
Invece lei è diversa, ogni cosa in lei è mutata e le
sembra che anche gli altri lo possano notare, che nel
salutarla la vecchietta dietro la solita finestra la osservi
con più attenzione, quasi scrutandola, che quei luoghi
tanto familiari la accolgano consapevoli del suo

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cambiamento. Anna sorride suo malgrado di
quell’ingenuità: solo lei può conoscere il suo
turbamento e sapere quante domande l’hanno
costretta a restare sveglia in quella lunga notte
insonne. Con questi pensieri arriva davanti
all’ingresso, chiude l’ombrello fradicio di pioggia ed
entra nella saletta d’attesa. È completamente sola e,
costatandolo, si sente sollevata. Senza altre persone
intorno, può permettersi di non fingere, di tornare alla
sera prima, quando ha scoperto il segreto che Sara,
sua madre, ha custodito per tutta la vita, che anzi
avrebbe probabilmente portato nella tomba, se per
pura casualità Anna non avesse trovato quel quaderno
d’appunti mescolato ad altre cose appartenute a lei.
Mentre la macchinetta automatica prepara il caffè,
Anna, seduta su una sedia di plastica, esamina di
nuovo tutti i dettagli della serata, con la minuzia di
chi, ancora incredulo, sta cercando di trovare delle
risposte. Come negli ultimi sette mesi, la mattina era
passata in clinica a trovare la madre. Quella che un
tempo era stata una donna sempre in movimento la
cui voce echeggiava per le stanze adesso se ne stava
distesa in un letto, muta, gli occhi quasi sempre chiusi
o fissi verso il soffitto, dimagrita a tal punto che

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nessuno degli abiti lasciati nell’armadio di casa le
sarebbe più andato bene.
Dal giorno dell’ictus era stata trasferita in quella
clinica specializzata di Trento, per tentare un seppur
minimo recupero. Anna non poteva e non voleva
accettare le alternative che quella situazione le
prospettava: perdere per sempre la persona che amava
o vederla vivere, se quello in definitiva era davvero
vivere, incapace di muoversi, di parlare, magari anche
di pensare. Così, contro il parere del suo medico, che
le aveva consigliato di non farsi illusioni, aveva
portato la madre in quella clinica, speranzosa. Non le
avevano certo promesso miracoli, ma da quando
frequentava quel luogo aveva visto migliorare altri due
pazienti, uno dei quali era arrivato lì in condizioni
ancora peggiori della madre. Erano miglioramenti
minuscoli agli occhi di una persona esterna e non
toccata da quei drammi: un dito che ricominciava a
muoversi, occhi che seguivano un viso, qualche suono
disarticolato, un fioco sibilo che giungeva dalla gola.
Per lei significava credere ancora, riuscire, anche se a
fatica, ad immaginarsi di nuovo la madre com’era una
volta. Fino a quel momento di miglioramenti non ce
n’erano stati, ma ogni mattina lei usciva di casa e

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guidava fin lì sperando di nuovo, ed ogni giorno,
tornando sui suoi passi, portava con sé una nuova
delusione.
Dopo, aveva lavorato al suo negozio di fiori
rinunciando al riposo settimanale, poiché sapeva bene
come solamente il lavoro fosse in grado di distrarla
dalle sue preoccupazioni. Lavorava molto di più da
quando la madre era malata, si lasciava sfiancare per
evitare di pensare.
Era stata la conversazione di due clienti ad indurla
a cercare qualcosa tra gli oggetti della madre. Mentre
lei avvolgeva le piante che le donne avevano scelto in
un’elegante carta rosa e sceglieva i nastri da abbinare,
le clienti attendevano di pagare parlottando tra loro di
un orologio antico, da taschino, che misteriosamente
pareva scomparso.
“Davvero un peccato. Non tanto per il valore
dell’oggetto, ma sai, era un ricordo. All’interno mio
nonno aveva fatto incidere una data” aveva detto la
più anziana delle due, sospirando con rammarico.
“Quale data? Un giorno particolare?” aveva chiesto
l’altra incuriosita.

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“Sì, la data e l’ora di nascita di mia madre”.
Ad Anna era tornato alla mente in quel momento
un altro orologio, quello che suo nonno, il padre di
sua madre, teneva sempre nel doppiopetto con una
catenella d’oro. Le sembrava che anche quello avesse
una data incisa e decise di verificare appena chiuso il
negozio. La sera tirò fuori tutte le scatole in cui erano
riposti gli oggetti della madre per esaminarne il
contenuto. Appena gli occhi si posavano su un libro,
una spazzola, una sciarpa, qualsiasi piccolo
frammento della vita di un tempo, una fitta le
attanagliava il cuore.
Aveva quasi disperato di trovare l’orologio quando
una cassetta di sicurezza di ferro catturò la sua
attenzione, era molto pesante e chiusa con un
lucchetto. Rovistò dappertutto alla ricerca della
chiave, senza però trovarne traccia. Solo dopo un’ora
si ricordò che la madre era solita nascondere i suoi
oggetti più preziosi in una sorta di gavetta militare,
testimonianza dell’ultima guerra, che Anna credeva di
suo padre. Si alzò subito per prenderla: la gavetta era
ancora al suo posto, ammaccata su un lato e un po’
arrugginita sui bordi, appoggiata sull’ultima mensola

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accanto alle scale che portavano in cantina. Dentro,
trovò una piccola chiave, che risultò essere proprio
quella della cassettina. Anna l’aprì esultante.
Al suo interno scoprì tanti piccoli tesori: c’erano
due dentini che riconobbe. Erano due dei suoi, persi a
sei anni, che lei stessa aveva nascosto sperando che un
topolino li trovasse per portarle una sorpresa;
ricordava ancora la delusione provata qualche anno
più tardi, il giorno in cui fu svelata la vera identità del
topo, come quella magia si era dissolta e con lei la sua
infanzia. C’erano poi fotografie in bianco e nero di
un’altra epoca, quando sua madre era bambina negli
anni del fascismo, vestita con la divisa da Piccola
italiana e immagini di suo fratello, lo zio Renzo, che
era stato partigiano, della zia Matilde, la prozia di
Anna: due persone che lei non aveva mai conosciuto.
C’erano monete e banconote fuori corso da un pezzo,
lettere ingiallite e l’orologio, posato sopra un
quaderno nero rilegato.
La sua curiosità le fece però trascurare l’orologio
del nonno, a lungo cercato, per concentrarsi invece su
quel taccuino, che a prima vista sembrava un diario.
Lo prese in mano titubante. Le era concesso spiare
così nella vita passata di sua madre? Era forse

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immorale da parte sua frugare a quel modo nei
pensieri più intimi di qualcuno che non poteva
difendere i suoi segreti? Alla fine, senza smettere di
sentirsi colpevole nel violare quelle pagine, aprì il
quaderno ed iniziò a leggere: sua madre, pensò, non
l’avrebbe mai saputo.
Leggeva in fretta, scorreva veloce un’esistenza
altrui tra quelle righe scritte in inchiostro nero, con
sempre maggiore stupore. Molto di ciò che leggeva le
era stato nascosto, ma non era niente rispetto alla
notizia che avrebbe appreso molte pagine dopo. Il
carattere della sua nonna paterna, ad esempio, tanto
autoritaria, lei l’aveva notato meno, così come i
pregiudizi e, a tratti, l’indifferenza e la cattiveria di
molti che avevano fatto parte della vita di sua madre
ed altri dettagli di persone che, a lei, si erano mostrate
sotto tutt’altra luce. Delle riflessioni di sua madre, poi,
sapeva poco, né aveva mai sospettato che si ponesse
domande sulla sua situazione in famiglia ed in società.
Quanti malumori, quante crisi, trasparivano invece da
quella pagine, quanta rabbia trattenuta a forza durante
il giorno era sfogata in quel diario di notte. Ad Anna
era sempre più difficile ritrovare sua madre in quelle
pagine, si chiedeva se l’avesse mai realmente

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conosciuta o se per tutti quegli anni avesse intravisto
solo un opaco riflesso della sua figura. Leggeva come
sospesa nel tempo, incurante del telefono che
squillava, della cena, del sonno, leggeva
domandandosi dove l’avrebbe portata quel racconto,
a quali verità sarebbe approdata una volta giunta alla
fine.
L’impazienza la tormentava, voleva farla saltare
subito alla conclusione, come accade quando una
storia ci appassiona a tal punto da voler conoscere
immediatamente il finale, tralasciando le troppe
pagine comprese tra l’inizio e la fine. Ma Anna invece
doveva conoscere, capire bene tutti i passaggi che
avevano prodotto gli eventi, cosa, in quella miriade
d’emozioni e sensazioni, aveva scatenato l’irreparabile.
Personaggi che lei stessa aveva conosciuto le
danzavano davanti in vesti nuove, ognuno con i suoi
insegnamenti, buoni o cattivi che fossero, per la
donna che chiamava madre e che ora le era
sconosciuta.
Finalmente la sua ansia, cresciuta man mano che
proseguiva nella lettura ad un livello spaventoso, si
placò. Più volte, prima di andare avanti, cercò con gli
occhi quel nome, lo rilesse per accertarsi che davvero

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fosse scritto lì, su quel foglio, a svelarle che lei, Anna,
non era sola al mondo.
E allora quel presentimento che sempre aveva
portato con sé fin dall’infanzia e che mai era riuscita a
spiegarsi nel corso degli anni (e del quale non aveva
mai fatto parola con la madre, né con altri) cominciò a
prender forma, a diventare qualcosa di concreto e non
più una vaga sensazione; in fondo all’ultima pagina un
indirizzo annotato con un inchiostro diverso, meno
sbiadito, come fosse stato ricalcato più volte per
evitare che si potesse cancellare, rendeva tutto ancora
più vero. Per attimi eterni rimase con lo sguardo
immobile sulla pagina. Non era possibile, non da sua
madre. Un segreto del genere l’avrebbe sicuramente
uccisa, a sua figlia, almeno, l’avrebbe detto. Eppure
era stata proprio la sua mano che, tanti anni prima,
aveva riempito le pagine bianche di quel quaderno, ed
era la calligrafia della madre che l’aveva guidata in quel
viaggio sorprendente.
Come, si chiedeva Anna, in che modo era riuscita a
sopravvivere, a trascinare avanti la sua esistenza per
anni, decenni, sola col suo segreto? Che la madre
avesse dimenticato per il troppo dolore? No, cose del
genere non si scordano.

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Così, tra mille interrogativi, era passata la notte ed
il giorno nuovo l’aveva trovata ancora immersa
totalmente in quella storia. Sapeva cosa doveva fare.
Prestissimo, aveva telefonato ad una compagnia aerea
e prenotato un volo per quel giorno stesso. Poi, aveva
riempito con l’essenziale la borsa da viaggio (che in
realtà non utilizzava mai, da quando la madre era in
quelle condizioni) infilandoci con cura e per ultimo
anche il quaderno nero prima di richiuderla, si era
vestita ed era corsa in clinica.
Ed eccola qui, adesso, umida di pioggia e vento
davanti ad un caffè caldo, in una saletta vuota. È
venuta a cercare spiegazioni dall’unica persona che
potrebbe fornirgliele, ma sa che non ne avrà. Cosa
potrebbero svelare gli occhi fissi di Sara, le sue labbra
chiuse? Nulla, perché sua madre è come tornata una
bambina piccola ed ha bisogno degli altri in tutto e
nello stesso modo dei bambini piccoli non sa parlare,
esprimersi, e sembra, come loro, non avere un
passato. Ma Sara l’ ha avuto quel passato e, se non più
nella mente, sta racchiuso di sicuro dentro al suo
cuore ed Anna sa che è inutile interrogare quella
bambina dai capelli bianchi, che ha scelto di tacere in

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tutto quel tempo prima della malattia e non parlerà
adesso che non può più farlo.
Tutti i protagonisti della storia narrata nel
quaderno nero sono morti: il padre e la madre di Sara,
la suocera, la zia Matilde, la cugina Maria (venuta a
mancare due anni prima, dopo aver passato la vita in
convento), il marito Carlo, cioè il padre di Anna.
Resta solo la zia Susanna, sorella minore di sua madre,
che vive ancora al paese con il marito; ma non sa
niente, come nulla sapevano gli altri, ad eccezione di
una di quelle persone ormai scomparse. Infatti,
solamente ad una di esse Sara aveva rivelato il segreto.
Pur nello sconforto nel sentirsi circondata da
fantasmi, la sera prima Anna aveva compreso che
qualcuno, forse, poteva sapere, ed era appunto alla
ricerca di quel qualcuno che si accingeva a partire.
Sonia, una delle infermiere, si avvicina sorridendo.
È giovane, si dev’essere diplomata solamente qualche
anno prima. Ad Anna è simpatica perché sa sempre
dire una parola di conforto a chi, come lei, ha
costantemente bisogno di sperare.

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“Già qui, oggi?” chiede ad Anna, che, per un
attimo, ancora frastornata, non risponde. Si scuote
solo quando la vede, in piedi, nella sua divisa bianca,
mentre in silenzio scruta la faccia assente di Anna.
“Oh sì, scusami. Sai, stanotte ho dormito poco”.
“Problemi?” domanda Sonia, sedendosi nella sedia
accanto a lei.
Si conoscono da diversi mesi, c’è familiarità tra
loro. C’era Sonia all’arrivo di Sara in quella clinica, era
lei ad assistere la madre quasi tutte le mattine, a
parlare con Anna ogni volta, ed era la maggior parte
delle volte, che la vedeva stanca per l’assenza di
cambiamenti, triste per com’era ridotta la madre; era
lei che riusciva a strapparle un sorriso. Solo il giorno
prima, Anna probabilmente si sarebbe confidata. Ma
oggi perfino la madre è divenuta un’estranea per lei,
figuriamoci una ragazza che sette mesi prima non
aveva mai visto.

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“No. Il solito” risponde malinconica, mentre dal
corridoio giungono le voci del personale medico.
“Devo andare”. Sonia la saluta con una leggera
pacca sulle spalle, come ad infonderle coraggio e se ne
va per il solito giro mattutino nelle corsie.
Ormai è ora, Anna raggiunge la stanza della madre,
entra aspettandosi di trovare un'altra al suo posto,
quasi che le scoperte fatte durante la sera precedente
l’avessero tramutata in un persona diversa,
irriconoscibile. Chi ci sarà sotto le coperte stamattina,
un mostro, un essere strano frutto della fantasia, una
donna prostrata dalla sofferenza, accartocciata nelle
sue stesse bugie, sfinita dal peso dei suoi misteri? Per
quanto ne sa potrebbe esserci chiunque in quel letto
d’ospedale, tutti eccetto Sara stessa, perché lei non è
più lei dopo ieri sera. Invece è ancora solamente sua
madre, pallida e silenziosa, senza le parole che Anna
vorrebbe.
C’è il dottore in camera, assicura che è tutto
normale, vale a dire immutato, piatto. Lei ringrazia, il
dottore esce e chiude la porta. Anna resta lì, sola,

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guarda la madre che non la vede. Prova a tirar fuori le
domande che sente dentro, vorrebbe almeno sapere
perché non le ha mai detto niente, neppure quando,
diventata grande, avrebbe capito; invece sta zitta,
perché sarebbe come parlare ad una pianta che
probabilmente sente ma non è capace di rispondere o
parla un linguaggio che comprende solamente lei.
Allora Anna la saluta in fretta, evitando di
accennare al suo viaggio. Le hanno detto che può
capire, anche se non esprime sentimenti, ed Anna ha
paura di turbarla. Come in un giorno qualsiasi, la bacia
e se ne va. Lascia detto a Sonia che starà via per
qualche giorno, senza specificare altro; in caso di
necessità possono rintracciarla sul cellulare.
Esce dalla clinica con la consapevolezza che, per
la prima volta dal giorno dell’ictus, il giorno seguente
non sarà al capezzale della madre, ma in Germania,
alla ricerca di una parte di sé. Sale in macchina e guida
sicura della decisione presa fino all’aeroporto. Manca
un bel po’ alla partenza, non sa nemmeno perché è
arrivata tanto presto, annoiata inizia a gironzolare nei
negozietti dei dintorni, comincia a chiedersi se quel
colpo di testa non sia azzardato, se per il momento
non sia più giusto cercare un contatto in un'altra

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maniera. Intanto il tempo passa, ha mangiato qualcosa
e ormai è giunta l’ora.
“Al diavolo!” pensa “È trascorso fin troppo
tempo”, e sale in aereo, vicino al finestrino, dove i
suoi pensieri potranno vagare tra le nuvole. Si
accendono i motori, l’aereo decolla: adesso non può
più tornare indietro. Apre la borsa ed estrae il
quaderno. Vuole rileggere tutto con più calma, prima
dell’atterraggio.