martedì 31 luglio 2012

ESTRATTO DAL LIBRO-IL CARATTERE DELLA ZIA MATILDE


In seguito, stanca delle mie domande nate dopo aver ascoltato quei discorsi, la mamma mi raccontò la storia della Matilde. Nei primi anni Venti, quando io ero piccolissima, la zia emigrò in Merica, a Buenos Aires, con suo marito. Pier Cesare De Bello, detto Cesare, che nonostante il nome bello non era davvero secondo mia madre, era un uomo di mezza statura, corporatura robusta e quasi grasso, un naso adunco e dei favoriti lasciati crescere senza cura, che sfigurava di fronte alla Matilde, alta, snella e con i lineamenti decisi ma al contempo delicati, che ne facevano una vera bellezza. Apparteneva ad una delle famiglie più ricche della zona che possedeva terreni un po’ in tutta la vallata, ma lo stesso Cesare aveva mandato in rovina i suoi e nessuno sapeva bene per quali motivi; la madre, caduta in disgrazia da un giorno all’altro, era morta di crepacuore.
 Lui, forse per cercare di alleviare il suo tormento e allontanarsi dal rancore del padre e dei fratelli, aveva deciso di salpare oltreoceano in cerca di fortuna. Ma appena qualche mese dopo il loro arrivo, scoppiò un’epidemia di tifo che uccise Cesare, lasciando la Matilde sola con mia cugina Maria di un anno ed una montagna di debiti. Il marito infatti doveva dei soldi al proprietario di una terra, un piccolo appezzamento che aveva acquistato promettendo di pagare un po’ per volta. Sperava forse di ricavarne qualcosa lavorando la terra e coltivandola, però la zia scoprì che non valeva nulla e l’aridità del terreno era tale da non permettere a nessun tipo di coltura di attecchire. Lei aveva estinto i debiti con il truffatore lavorando come serva in un’osteria locale. Gli abitanti del villaggio la chiamavano scherzosamente la “Piedra”, la Pietra, un modo per definire il suo carattere ostinato, ed osservavano con curiosità il suo tragitto verso la locanda, ogni giorno per mano ad una bambina sempre più magra; se la trascinava dietro non sapendo a chi affidarla. Prometteva alla figlia, ma in realtà più a se stessa, di ritornare in Italia, cercando di farsi coraggio e tirare avanti. Non era semplice. Avevano le scarpe bucate e vestiti stracciati, ma la zia aveva rifiutato qualsiasi forma d’aiuto, specialmente quello di suo padre. 

Dopo la morte di Cesare aveva scritto al paese e la famiglia immaginava in quali condizioni sopravvivessero madre e figlia. I genitori spedivano lettere offrendole aiuto, anche a costo di grandi sacrifici, ma lei rifiutava sempre. Quei rifiuti le costarono parecchi mesi di lavoro, in un paese che non amava, ben lontano dalle speranze che erano state sue e di Cesare.
Solo dopo un anno e mezzo che lavorava all’osteria riuscì a mettere da parte il danaro per pagare la traversata via mare. Al paese la gente era sorpresa per il suo mancato ritorno dopo la scomparsa del consorte e pensavano che la Matilde si fosse già trovata un altro uomo mentre a Buenos Aires, dove la zia aveva conosciuto diversi amici, la vedevano partire con un groppo in gola e la salutavano sventolando fazzoletti sul molo, ammirando la dignità di quella donna che era stata capace di farsi forza.
Tornava al paese che aveva lasciato e tutto ciò che aveva (a parte la vedovanza) stava in una valigia sbrindellata. Decisa a non gravare su nessuno ed a conservare la propria indipendenza, la Matilde si mise alla ricerca di un lavoro e di un posto dove vivere con la Maria.

“Quando la rividi rimasi di sasso. Si era tagliata i capelli e portava le braghe. Mi disse che con il tessuto delle gonne aveva fatto pezze da cucina. Pareva un uomo” mi raccontava la mamma.

Oggi so che mia madre si sbagliava. La zia somiglia ad un uomo non per l’aspetto (i capelli corti, che porta ancora adesso, le donano molto) o l’abbigliamento, quanto per gli atteggiamenti sicuri, il piglio, l’andatura veloce, lo spirito, tutte caratteristiche più dei maschi che delle femmine. Trovò un impiego come postina, lavoro che svolge ancora oggi a turno con un collega, Remo: per fortuna il telegramma che annunciava la morte di Renzo non l’ ha dovuto portare lei alla mamma.
 Era un lavoraccio, che la costringeva a pedalare per chilometri in bicicletta per consegnare lettere e pacchi, con qualsiasi tempo. Gli anni trascorsi in Argentina però l’avevano resa più forte e non la spaventava la fatica; con i risparmi comprò una piccola casetta, lasciando l’abitazione di un’amica che l’aveva ospitata nei primi tempi. Spaccava la legna, arava i campi e falciava i prati, era capace di riparare qualsiasi congegno meccanico, leggeva, s’interessava di sport e politica, quello che non sapeva fare lo imparava presto.
Cosa più importante, non aveva più cercato un uomo, benché i corteggiatori non le mancassero. Quando la mattina passava in bicicletta per le vie del paese i giovanotti le urlavano: “C’è posta Matilde?” e fischiavano in segno d’approvazione. Lei rideva, a volte si fermava a parlare. Era giovane e bella, quando fui più grandicella le chiesi perché non desiderasse risposarsi. Un giorno che lei e la Maria erano passate a casa nostra, avrò avuto otto o nove anni, le dissi che sposandosi di nuovo non avrebbe più dovuto lavorare tanto. Lei non si scompose, mi venne vicino e, parlandomi piano come fosse una confessione, mi confidò che lavorare le piaceva molto. Non riuscivo a capire come potesse esser contenta di pedalare per ore sotto la pioggia o di spaccarsi la schiena in lavori che un uomo poteva svolgere al suo posto. Rimasi senza parole, la zia rise del mio silenzio e aggiunse che un lavoro fatto con tutti i crismi dava grande soddisfazione.
Fino ad allora l’unico modello di donna che credevo possibile era quello della ragazza che diventa moglie e madre e si affida in tutto e per tutto alle decisioni del marito: una come mia madre, insomma. Le sue parole mi avevano confuso; era l’unica donna della borgata a vivere sola, in una casa senza un uomo, e sola aveva allevato la figlia. Molte delle altre, anche quelle rimaste vedove, si erano maritate con i primi uomini disponibili per paura di doversi arrangiare o apparire indecorose. Sapevo che quella condizione era la causa di molti litigi familiari, perché soprattutto suo padre (e mio nonno) la voleva sistemata e “normale” come le altre.
Io vedevo la vita della zia come un qualcosa di strano ed allo stesso tempo affascinante e proibito e non sapevo mai bene se imitarla o, in certi momenti, specie quando ne sentivo parlare dai miei, compatirla. Avevo sempre questi pensieri, a volte m’immaginavo trasformata in un ragazzo per quelle folli idee di libertà, di una vita mia, con le mie sole forze su cui contare e non comprendevo perché indossare delle braghe di fustagno fosse peccato.
 Una volta il signor curato, vedendola abbigliata da maschio, le ricordò che il Signore aveva stabilito che le donne dovevano indossare vesti e che, se non aveva più gonne in casa, la perpetua sarebbe stata lieta di cucirne una per lei. La Matilde scoppiò a ridere come al suo solito, domandando al signor parroco se per caso i preti, che indossano la tonaca, fossero in realtà delle donne.
Quando era da noi, mentre mia madre cucinava lei leggeva, commentava le notizie del giorno cercando invano di coinvolgere mio padre. Lui non condivideva i modi della Matilde, quel rifiuto di “stare al suo posto” e non di rado cercava di umiliarla, senza tuttavia riuscirci, ricordandole che quelle erano robe da uomini.
Fin dall’inizio, alla zia non è mai piaciuto il Duce e non ha più cambiato opinione. Una volta acciuffò me e Renzo mentre, vestiti con la divisa dell’Opera nazionale Balilla, raggiungevamo il sagrato della chiesa per gli esercizi ginnici del sabato. Ci spogliò e, dopo averci rivestiti con altri abiti, ci disse di andare a giocare, che sicuramente il nostro fisico ne avrebbe tratto maggiore giovamento.

“Sono due porci, quelli lì. Sono stati capaci solo di urlare in piazza alla gente sciocca che li applaudiva” l’ho sentita dire una volta, riferendosi al Duce e Hitler, dopo un comizio di Mussolini trasmesso per radio, seguito da Galeazzo “testa di cazzo” Ciano, come dice lei riprendendo uno sfottò popolare.
 Detesta il Duce per molte ragioni, soprattutto per quello che pensa delle donne, e ripete spesso che lei si sente tale anche se non ha ricevuto alcuna medaglia al merito o un premio in danaro durante una cerimonia pubblica per aver partorito dodici figli per la Patria, perché non potrà mai riconoscersi nel “Credere, obbedire, combattere e..partorire!”.

mercoledì 11 luglio 2012

martedì 10 luglio 2012

LA STRADA DI CASA ALLA LIBRERIA LA CATTEDRA DI CLES




Vi segnalo che La Strada di Casa è nuovamente disponibile per l’acquisto alla libreria La Cattedra di Cles, val di Non, Trentino, in via Filzi 9 (a due passi da piazza Granda).

mercoledì 4 luglio 2012

PERCHÉ LA STRADA DI CASA




La strada di casa è una metafora per indicare:

  • per Anna, che ritrova il diario della madre scritto durante la seconda guerra mondiale, la possibilità di conoscere una parte del suo passato attraverso un viaggio tra il Trentino, la Germania e infine la Polonia;
  • per Sara, madre di Anna, negli anni della guerra, la volontà di amare un soldato tedesco nonostante tutto e coniugare questo con l’affetto per la zia Matilde, staffetta partigiana:
  • per Matilde la voglia di essere accettata, anche se non espressa chiaramente, anche se è una donna anticonformista, partigiana, indipendente.

La strada di casa è prima di tutto la necessità per queste donne di essere accettate per come sono, oltre che per Anna la necessità di conoscere un pezzo della sua vita rimasto nascosto per moltissimi anni.