giovedì 16 dicembre 2010

AUGURI!!



Buon Natale ai lettori della Strada di casa e a chi leggerà il libro in futuro. Grazie mille e auguri!

Lara

giovedì 9 dicembre 2010

GRAZIE DEI VOTI

Grazie a tutti quanti finora hanno votato questo blog che è ufficialmente in classifica in Net-parade. Per chi vuole votare e far accrescere la popolarità del blog, basta cliccare nello spazio apposito su "sì". Grazie ancora

Lara

lunedì 25 ottobre 2010

LA STRADA..PERCHE' PUO' PIACERTI E...IN EBOOK!




La strada la trovi anche in EBOOK su LULU.COM a soli 6,25 euro! Subito sul tuo pc senza spese di spedizione!

mercoledì 29 settembre 2010

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Lara

lunedì 20 settembre 2010

QUAL'E' LA VOSTRA STRADA DI CASA?

Tornare a casa dopo una giornata difficile
scorgere da lontano le finestre illuminate
dentro c'è chi aspetta
pregustare il caldo del fuoco
mentre fuori cadono i fiocchi di dicembre
in fondo
è bello
essere a casa

venerdì 27 agosto 2010

COMMENTO DI GIANLUCA...

Pubblico il commento di un mio lettore, Gianluca Cappellozza, autore a sua volta, di cui trovate la recensione del suo ultimo libro su Bottega dei Libri http://bottegadeilibri.blogspot.com. Grazie Gianluca e in bocca al lupo!

Il tuo libro l'avevo letto tempo fa e mi era piaciuto. Poi tra mille cose mi sono dimenticanto di risponderti. Quindi ora perdonami. Cerco di andare a ritroso. Riprendo in mano il testo che ho sempre in evidenza nella libreria di casa. Ogni tanto quando ci passo davanti leggo sempre il titolo molto suggestivo.
Ricordo alcuni passi molto belli:"E' l'ultima volta che scrivo..."
La guerra è finita, hanno fucilato Mussolini e Hitler s'è amazzato da solo..."
Precedentemente ricordo un altro passo" Anche Vittorio Fabbri è morto...subito non l'hanno riconosciuto..."
Da lettore colgo la malinconia del ricordo che nei bei romanzi non deve mai mancare. Il titolo è bello, bellissimo: "La strada di casa"evoca suggestione, ricordi, senso del passato...
Ora che lo sto sfogliando dopo averlo letto mesi fa ricordo la Maria che in chiesa pregava per i vivi e i morti. Sono storie che a me piacciono perchè mia madre 80enne ricorda benissimo i drammi del periodo 43-45. Il romanzo è molto articolato e richiede una lettura attenta.Velatamente la saggistica in alcune righe sembra incontrare la narrazione.
Bellissima la prefazione che ho letto e riletto molte volte. E'vero sogniamo ma poi noi tutti cerchiamo le noste radici e come dici te: La Strada di Casa".
Purtroppo al momento non ho un blog. Questo secondo libro è stata una scommessa post primo libro di 6 anni fa:Vi regalo...il Nordest?! Sono uno scrittore saltuario anche perchè i mille impegni mi impediscono di dare continuità alla passione della scrittura.
A presto
Ciao
Gianluca

martedì 24 agosto 2010

martedì 10 agosto 2010

LA STRADA DI CASA SU LULU ANCHE EBOOK



Il libro è disponibile anche su Lulu.com, prima edizione diversa solo per formati e copertina da quella successiva. Qui:

http://www.lulu.com/product/file-download/la-strada-di-casa/2463560?productTrackingContext=search_results/search_shelf/center/1

(fate copia incolla sulla barra indirizzi e cliccate invio, oppure cliccate sul link a destra "Lo trovi ance su Lulu")

lunedì 19 luglio 2010

GRAZIE


Grazie ai tanti che hanno deciso di leggere e acquistare la Strada di casa. Dalla prima edizione (inizialmente il libro era pubblicato con Lulu, solo in seguito con la casa editrice Uni-Service di Trento) il libro è stato acquistato prima a livello locale, poi anche grazie a Twitter, Facebook e al potere del Web da altre persone in giro per l'Italia, oltre che in Sudafrica e Nordamerica. Sperando che il libro continui a incuriosire, grazie anche a quanti hanno ospitato le mie presentazioni e hanno lasciato commenti sul blog o me li hanno riferiti verbalmente. Grazie a tutti, di cuore!

Lara

martedì 13 luglio 2010

LEGGI UN PO' DE LA STRADA DI CASA



Pubblico qui un estratto del libro, aspetto i vostri commenti!






LA STRADA DI CASA





di Lara Zavatteri





















Prefazione

Ognuno cerca sempre la strada di casa. Inconsapevolmente o meno, tutti portiamo dentro quel luogo dal quale proveniamo, nel quale siamo cresciuti, dove si è riso e si è sofferto e spesso è proprio quando ce ne allontaniamo che il richiamo delle nostre radici si fa sentire più forte. È impossibile spezzare questo legame, sarebbe come uccidere una parte di noi stessi, dimenticare i ricordi, relegare il nostro passato in un limbo. Tutti i personaggi di questo libro cercano la strada di casa: l’ ha cercata Sara durante la guerra realizzando infine il ricongiungimento in modo doloroso, la cerca metaforicamente Anna inseguendo da un lato la vera identità della madre, dall’altro qualcuno che può svelare in parte quel mistero, quest’ultimo a sua volta occupato a trovare un luogo mai conosciuto. La cerca infine anche Matilde, il personaggio “diverso” della storia ed in quanto tale isolato dal gruppo, che pure nei suoi tratti caratteristici di donna moderna, emancipata, libera e quindi scomoda in una società fortemente ancorata ad una visione maschilista della vita, brama continuamente d’essere accettata per quello che è, di tornare a casa. Per tutti la strada da percorrere all’inizio è nebulosa ma pian piano la foschia si dirada e, con esiti diversi, i protagonisti scorgono il percorso da affrontare. Perché sempre, anche ad occhi chiusi, chi ama un posto è capace di ritrovarlo, e dovunque siamo la voce delle nostre radici ci chiama e ci conduce a casa.






































Novembre 2005

Anna non aveva chiuso occhio quella notte. Si era addormentata tardi, svegliandosi di continuo mentre la sua mente ripeteva all’infinito gli accadimenti di quella giornata senza darle un attimo di tregua e, adesso, cammina sotto la pioggia verso la clinica, qualche minuto prima dell’orario consentito per le visite.
Tutto, a parte quell’anticipo d’inverno nell’aria ed il cielo grigio di pioggia è esattamente come il mattino precedente: uguale la sua macchina parcheggiata nel vialetto, poco lontano dall’ingresso dell’ospedale, uguali i volti di coloro che incontra, il giornalaio che sistema in ordine i quotidiani, i commercianti che aprono sbadigliando le saracinesche dei loro negozi, uguali gli alberi del parco che, muti e spogli, attendono il passare del tempo.
Invece lei è diversa, ogni cosa in lei è mutata e le sembra che anche gli altri lo possano notare, che nel salutarla la vecchietta dietro la solita finestra la osservi con più attenzione, quasi scrutandola, che quei luoghi tanto familiari la accolgano consapevoli del suo cambiamento. Anna sorride suo malgrado di quell’ingenuità: solo lei può conoscere il suo turbamento e sapere quante domande l’hanno costretta a restare sveglia in quella lunga notte insonne. Con questi pensieri arriva davanti all’ingresso, chiude l’ombrello fradicio di pioggia ed entra nella saletta d’attesa. È completamente sola e, costatandolo, si sente sollevata. Senza altre persone intorno, può permettersi di non fingere, di tornare alla sera prima, quando ha scoperto il segreto che Sara, sua madre, ha custodito per tutta la vita, che anzi avrebbe probabilmente portato nella tomba, se per pura casualità Anna non avesse trovato quel quaderno d’appunti mescolato ad altre cose appartenute a lei.
Mentre la macchinetta automatica prepara il caffè, Anna, seduta su una sedia di plastica, esamina di nuovo tutti i dettagli della serata, con la minuzia di chi, ancora incredulo, sta cercando di trovare delle risposte. Come negli ultimi sette mesi, la mattina era passata in clinica a trovare la madre. Quella che un tempo era stata una donna sempre in movimento la cui voce echeggiava per le stanze adesso se ne stava distesa in un letto, muta, gli occhi quasi sempre chiusi o fissi verso il soffitto, dimagrita a tal punto che nessuno degli abiti lasciati nell’armadio di casa le sarebbe più andato bene.
Dal giorno dell’ictus era stata trasferita in quella clinica specializzata di Trento, per tentare un seppur minimo recupero. Anna non poteva e non voleva accettare le alternative che quella situazione le prospettava: perdere per sempre la persona che amava o vederla vivere, se quello in definitiva era davvero vivere, incapace di muoversi, di parlare, magari anche di pensare. Così, contro il parere del suo medico, che le aveva consigliato di non farsi illusioni, aveva portato la madre in quella clinica, speranzosa. Non le avevano certo promesso miracoli, ma da quando frequentava quel luogo aveva visto migliorare altri due pazienti, uno dei quali era arrivato lì in condizioni ancora peggiori della madre. Erano miglioramenti minuscoli agli occhi di una persona esterna e non toccata da quei drammi: un dito che ricominciava a muoversi, occhi che seguivano un viso, qualche suono disarticolato, un fioco sibilo che giungeva dalla gola. Per lei significava credere ancora, riuscire, anche se a fatica, ad immaginarsi di nuovo la madre com’era una volta. Fino a quel momento di miglioramenti non ce n’erano stati, ma ogni mattina lei usciva di casa e guidava fin lì sperando di nuovo, ed ogni giorno, tornando sui suoi passi, portava con sé una nuova delusione.
Dopo, aveva lavorato al suo negozio di fiori rinunciando al riposo settimanale, poiché sapeva bene come solamente il lavoro fosse in grado di distrarla dalle sue preoccupazioni. Lavorava molto di più da quando la madre era malata, si lasciava sfiancare per evitare di pensare.
Era stata la conversazione di due clienti ad indurla a cercare qualcosa tra gli oggetti della madre. Mentre lei avvolgeva le piante che le donne avevano scelto in un’elegante carta rosa e sceglieva i nastri da abbinare, le clienti attendevano di pagare parlottando tra loro di un orologio antico, da taschino, che misteriosamente pareva scomparso.
“Davvero un peccato. Non tanto per il valore dell’oggetto, ma sai, era un ricordo. All’interno mio nonno aveva fatto incidere una data” aveva detto la più anziana delle due, sospirando con rammarico.

“Quale data? Un giorno particolare?” aveva chiesto l’altra incuriosita.
“Sì, la data e l’ora di nascita di mia madre”.

Ad Anna era tornato alla mente in quel momento un altro orologio, quello che suo nonno, il padre di sua madre, teneva sempre nel doppiopetto con una catenella d’oro. Le sembrava che anche quello avesse una data incisa e decise di verificare appena chiuso il negozio. La sera tirò fuori tutte le scatole in cui erano riposti gli oggetti della madre per esaminarne il contenuto. Appena gli occhi si posavano su un libro, una spazzola, una sciarpa, qualsiasi piccolo frammento della vita di un tempo, una fitta le attanagliava il cuore.
Aveva quasi disperato di trovare l’orologio quando una cassetta di sicurezza di ferro catturò la sua attenzione, era molto pesante e chiusa con un lucchetto. Rovistò dappertutto alla ricerca della chiave, senza però trovarne traccia. Solo dopo un’ora si ricordò che la madre era solita nascondere i suoi oggetti più preziosi in una sorta di gavetta militare, testimonianza dell’ultima guerra, che Anna credeva di suo padre. Si alzò subito per prenderla: la gavetta era ancora al suo posto, ammaccata su un lato e un po’ arrugginita sui bordi, appoggiata sull’ultima mensola accanto alle scale che portavano in cantina. Dentro, trovò una piccola chiave, che risultò essere proprio quella della cassettina. Anna l’aprì esultante.
Al suo interno scoprì tanti piccoli tesori: c’erano due dentini che riconobbe. Erano due dei suoi, persi a sei anni, che lei stessa aveva nascosto sperando che un topolino li trovasse per portarle una sorpresa; ricordava ancora la delusione provata qualche anno più tardi, il giorno in cui fu svelata la vera identità del topo, come quella magia si era dissolta e con lei la sua infanzia. C’erano poi fotografie in bianco e nero di un’altra epoca, quando sua madre era bambina negli anni del fascismo, vestita con la divisa da Piccola italiana e immagini di suo fratello, lo zio Renzo, che era stato partigiano, della zia Matilde, la prozia di Anna: due persone che lei non aveva mai conosciuto. C’erano monete e banconote fuori corso da un pezzo, lettere ingiallite e l’orologio, posato sopra un quaderno nero rilegato.
La sua curiosità le fece però trascurare l’orologio del nonno, a lungo cercato, per concentrarsi invece su quel taccuino, che a prima vista sembrava un diario. Lo prese in mano titubante. Le era concesso spiare così nella vita passata di sua madre? Era forse immorale da parte sua frugare a quel modo nei pensieri più intimi di qualcuno che non poteva difendere i suoi segreti? Alla fine, senza smettere di sentirsi colpevole nel violare quelle pagine, aprì il quaderno ed iniziò a leggere: sua madre, pensò, non l’avrebbe mai saputo.
Leggeva in fretta, scorreva veloce un’esistenza altrui tra quelle righe scritte in inchiostro nero, con sempre maggiore stupore. Molto di ciò che leggeva le era stato nascosto, ma non era niente rispetto alla notizia che avrebbe appreso molte pagine dopo. Il carattere della sua nonna paterna, ad esempio, tanto autoritaria, lei l’aveva notato meno, così come i pregiudizi e, a tratti, l’indifferenza e la cattiveria di molti che avevano fatto parte della vita di sua madre ed altri dettagli di persone che, a lei, si erano mostrate sotto tutt’altra luce. Delle riflessioni di sua madre, poi, sapeva poco, né aveva mai sospettato che si ponesse domande sulla sua situazione in famiglia ed in società. Quanti malumori, quante crisi, trasparivano invece da quella pagine, quanta rabbia trattenuta a forza durante il giorno era sfogata in quel diario di notte. Ad Anna era sempre più difficile ritrovare sua madre in quelle pagine, si chiedeva se l’avesse mai realmente conosciuta o se per tutti quegli anni avesse intravisto solo un opaco riflesso della sua figura. Leggeva come sospesa nel tempo, incurante del telefono che squillava, della cena, del sonno, leggeva domandandosi dove l’avrebbe portata quel racconto, a quali verità sarebbe approdata una volta giunta alla fine.
L’impazienza la tormentava, voleva farla saltare subito alla conclusione, come accade quando una storia ci appassiona a tal punto da voler conoscere immediatamente il finale, tralasciando le troppe pagine comprese tra l’inizio e la fine. Ma Anna invece doveva conoscere, capire bene tutti i passaggi che avevano prodotto gli eventi, cosa, in quella miriade d’emozioni e sensazioni, aveva scatenato l’irreparabile. Personaggi che lei stessa aveva conosciuto le danzavano davanti in vesti nuove, ognuno con i suoi insegnamenti, buoni o cattivi che fossero, per la donna che chiamava madre e che ora le era sconosciuta.
Finalmente la sua ansia, cresciuta man mano che proseguiva nella lettura ad un livello spaventoso, si placò. Più volte, prima di andare avanti, cercò con gli occhi quel nome, lo rilesse per accertarsi che davvero fosse scritto lì, su quel foglio, a svelarle che lei, Anna, non era sola al mondo.
E allora quel presentimento che sempre aveva portato con sé fin dall’infanzia e che mai era riuscita a spiegarsi nel corso degli anni (e del quale non aveva mai fatto parola con la madre, né con altri) cominciò a prender forma, a diventare qualcosa di concreto e non più una vaga sensazione; in fondo all’ultima pagina un indirizzo annotato con un inchiostro diverso, meno sbiadito, come fosse stato ricalcato più volte per evitare che si potesse cancellare, rendeva tutto ancora più vero. Per attimi eterni rimase con lo sguardo immobile sulla pagina. Non era possibile, non da sua madre. Un segreto del genere l’avrebbe sicuramente uccisa, a sua figlia, almeno, l’avrebbe detto. Eppure era stata proprio la sua mano che, tanti anni prima, aveva riempito le pagine bianche di quel quaderno, ed era la calligrafia della madre che l’aveva guidata in quel viaggio sorprendente.
Come, si chiedeva Anna, in che modo era riuscita a sopravvivere, a trascinare avanti la sua esistenza per anni, decenni, sola col suo segreto? Che la madre avesse dimenticato per il troppo dolore? No, cose del genere non si scordano.
Così, tra mille interrogativi, era passata la notte ed il giorno nuovo l’aveva trovata ancora immersa totalmente in quella storia. Sapeva cosa doveva fare. Prestissimo, aveva telefonato ad una compagnia aerea e prenotato un volo per quel giorno stesso. Poi, aveva riempito con l’essenziale la borsa da viaggio (che in realtà non utilizzava mai, da quando la madre era in quelle condizioni) infilandoci con cura e per ultimo anche il quaderno nero prima di richiuderla, si era vestita ed era corsa in clinica.
Ed eccola qui, adesso, umida di pioggia e vento davanti ad un caffè caldo, in una saletta vuota. È venuta a cercare spiegazioni dall’unica persona che potrebbe fornirgliele, ma sa che non ne avrà. Cosa potrebbero svelare gli occhi fissi di Sara, le sue labbra chiuse? Nulla, perché sua madre è come tornata una bambina piccola ed ha bisogno degli altri in tutto e nello stesso modo dei bambini piccoli non sa parlare, esprimersi, e sembra, come loro, non avere un passato. Ma Sara l’ ha avuto quel passato e, se non più nella mente, sta racchiuso di sicuro dentro al suo cuore ed Anna sa che è inutile interrogare quella bambina dai capelli bianchi, che ha scelto di tacere in tutto quel tempo prima della malattia e non parlerà adesso che non può più farlo.
Tutti i protagonisti della storia narrata nel quaderno nero sono morti: il padre e la madre di Sara, la suocera, la zia Matilde, la cugina Maria (venuta a mancare due anni prima, dopo aver passato la vita in convento), il marito Carlo, cioè il padre di Anna. Resta solo la zia Susanna, sorella minore di sua madre, che vive ancora al paese con il marito; ma non sa niente, come nulla sapevano gli altri, ad eccezione di una di quelle persone ormai scomparse. Infatti, solamente ad una di esse Sara aveva rivelato il segreto.
Pur nello sconforto nel sentirsi circondata da fantasmi, la sera prima Anna aveva compreso che qualcuno, forse, poteva sapere, ed era appunto alla ricerca di quel qualcuno che si accingeva a partire.
Sonia, una delle infermiere, si avvicina sorridendo. È giovane, si dev’essere diplomata solamente qualche anno prima. Ad Anna è simpatica perché sa sempre dire una parola di conforto a chi, come lei, ha costantemente bisogno di sperare.

“Già qui, oggi?” chiede ad Anna, che, per un attimo, ancora frastornata, non risponde. Si scuote solo quando la vede, in piedi, nella sua divisa bianca, mentre in silenzio scruta la faccia assente di Anna.

“Oh sì, scusami. Sai, stanotte ho dormito poco”.

“Problemi?” domanda Sonia, sedendosi nella sedia accanto a lei.

Si conoscono da diversi mesi, c’è familiarità tra loro. C’era Sonia all’arrivo di Sara in quella clinica, era lei ad assistere la madre quasi tutte le mattine, a parlare con Anna ogni volta, ed era la maggior parte delle volte, che la vedeva stanca per l’assenza di cambiamenti, triste per com’era ridotta la madre; era lei che riusciva a strapparle un sorriso. Solo il giorno prima, Anna probabilmente si sarebbe confidata. Ma oggi perfino la madre è divenuta un’estranea per lei, figuriamoci una ragazza che sette mesi prima non aveva mai visto.

“No. Il solito” risponde malinconica, mentre dal corridoio giungono le voci del personale medico.

“Devo andare”. Sonia la saluta con una leggera pacca sulle spalle, come ad infonderle coraggio e se ne va per il solito giro mattutino nelle corsie.

Ormai è ora, Anna raggiunge la stanza della madre, entra aspettandosi di trovare un'altra al suo posto, quasi che le scoperte fatte durante la sera precedente l’avessero tramutata in un persona diversa, irriconoscibile. Chi ci sarà sotto le coperte stamattina, un mostro, un essere strano frutto della fantasia, una donna prostrata dalla sofferenza, accartocciata nelle sue stesse bugie, sfinita dal peso dei suoi misteri? Per quanto ne sa potrebbe esserci chiunque in quel letto d’ospedale, tutti eccetto Sara stessa, perché lei non è più lei dopo ieri sera. Invece è ancora solamente sua madre, pallida e silenziosa, senza le parole che Anna vorrebbe.
C’è il dottore in camera, assicura che è tutto normale, vale a dire immutato, piatto. Lei ringrazia, il dottore esce e chiude la porta. Anna resta lì, sola, guarda la madre che non la vede. Prova a tirar fuori le domande che sente dentro, vorrebbe almeno sapere perché non le ha mai detto niente, neppure quando, diventata grande, avrebbe capito; invece sta zitta, perché sarebbe come parlare ad una pianta che probabilmente sente ma non è capace di rispondere o parla un linguaggio che comprende solamente lei.
Allora Anna la saluta in fretta, evitando di accennare al suo viaggio. Le hanno detto che può capire, anche se non esprime sentimenti, ed Anna ha paura di turbarla. Come in un giorno qualsiasi, la bacia e se ne va. Lascia detto a Sonia che starà via per qualche giorno, senza specificare altro; in caso di necessità possono rintracciarla sul cellulare.
Esce dalla clinica con la consapevolezza che, per la prima volta dall’ictus, il giorno seguente non sarà al capezzale della madre, ma in Germania, alla ricerca di una parte di sé. Sale in macchina e guida sicura della decisione presa fino all’aeroporto. Manca un bel po’ alla partenza, non sa nemmeno perché è arrivata tanto presto, annoiata inizia a gironzolare nei negozietti dei dintorni, comincia a chiedersi se quel colpo di testa non sia azzardato, se per il momento non sia più giusto cercare un contatto in un'altra maniera. Intanto il tempo passa, ha mangiato qualcosa e ormai è giunta l’ora.
“Al diavolo!” pensa “È trascorso fin troppo tempo”, e sale in aereo, vicino al finestrino, dove i suoi pensieri potranno vagare tra le nuvole. Si accendono i motori, l’aereo decolla: adesso non può più tornare indietro. Apre la borsa ed estrae il quaderno. Vuole rileggere tutto con più calma, prima dell’atterraggio.













Castelfondo, 22 agosto 1943.
Ieri mio fratello Renzo è morto. È già il terzo anno di guerra e ancora non se ne intravede la fine, anche se Mussolini ha perso tutto a luglio. Sono sola in casa, ho deciso di cominciare a scrivere un diario per avere almeno l’illusione di parlare con qualcuno, perché fuori e dentro di me c’è davvero troppa solitudine, ma d’altra parte la disperazione è talmente forte a casa dei miei che non sono riuscita a trattenermi tutta la notte. Avevo bisogno di pensare senza gli sguardi assenti di mio padre e di mia madre, ancora seduti al tavolo da cucina con il telegramma in mano. Credo siano rimasti in quella posizione fin da questa mattina, quando il postino ha bussato piano alla porta e con aria afflitta ha consegnato l’orrendo messaggio. Quanto mi rincresce non essere stata io a ricevere per prima la notizia, per preparare un po’ i genitori. A quell’ora passo ogni giorno a salutarli, ma il destino a quanto pare si diverte anche nei momenti più brutti: ero già uscita di casa per andare alla bottega, quando mi sono accorta di aver dimenticato le tessere annonarie e sono dovuta tornare indietro. Quel momento è stato sufficiente al postino per bussare e trovare mio padre al posto mio. “Cosa vi porto oggi, cioccolato o fragole?” ho gridato io allegramente prima di entrare in cucina. È un nostro modo di scherzare, un detto nato per gioco poiché qui da noi, praticamente, non esistono né fragole né cioccolato, ed anzi al mercato è un miracolo trovare il necessario, come lo zucchero. Non ho avuto risposta. Sorpresa, ho chiuso la porta alle mie spalle e sono entrata. Li ho trovati immobili, seduti al tavolo come statue. “Renzo!” mi è scappato appena ho scorto il telegramma, aperto e ripiegato con cura, posato sulla tovaglia come una reliquia. Sentendo quel nome si sono rianimati, quasi svegliati da un sonno fatto d’incubi, guardandomi. Allora ho letto il messaggio, poche righe scritte da uno dei suoi compagni che c’informava della morte di “Raoul” (era questo il nome di battaglia di mio fratello, preso a prestito dai racconti della zia Matilde quand’era in Sudamerica, dove Raoul è un nome molto diffuso) e nessun’altra informazione. Il timbro postale era di Belluno, ma è impossibile sapere se Renzo è morto in quella zona. Probabilmente i partigiani hanno dato incarico a qualche persona fidata della città di avvertirci e spedire da lì un telegramma; forse sono molto più vicini e questo era l’unico modo per far giungere la notizia senza rischiare. Ad ogni modo poco importa ormai. Renzo è morto ieri. È morto in battaglia sotto i colpi di uno schioppo todesco, chissà se l’hanno seppellito. Non avremo una tomba su cui piangere, il suo corpo non riposerà tra queste montagne. Maledetti, maledetti todeschi! Vi odio! L’unica consolazione è saperlo morto per la libertà, mentre in nome dei suoi ideali sacrificava i suoi vent’anni. Per tutto il giorno a casa dei miei è stato un via vai di gente, ma di famiglie che hanno altri figli partigiani, non certo di chi, invece, ha deciso di restare fedele al Duce. Con mia sorella Susanna ho accolto tutti, ascoltato le loro inutili parole di conforto, mentre i miei per tutto il tempo non hanno dato alcun segno di partecipazione. È arrivato anche il dottore, mi ha dato una polverina per calmarli in caso di necessità, ma sono come morti anche se continuano a respirare. Ad un certo punto nel pomeriggio la Susanna ha preso a tremare senza riuscire a controllarsi, l’ho mandata a stendersi mentre restavo con la zia Matilde.

“Andate, per l’amor di Dio! C’è già troppo dolore in questa casa” ha detto ad alcune donne che, in un angolo, recitavano il rosario. “Vado a cercare il parroco, farò dire una messa domani”. Solamente in quel momento, dagli occhi di mia madre sono sgorgate lagrime irrefrenabili, mio padre ha appoggiato la testa tra le mani singhiozzando. Allora abbiamo pianto tutti, per non so quanto tempo, forse ore che parevano giorni. Ho aspettato il ritorno della zia e sono tornata a casa, sola, sotto il peso di questo fardello e ho lasciato sfogare la disperazione di questa triste giornata, lontana dagli occhi già troppo provati dei miei. Chissà dov’è Renzo, in questo momento. Vedrà ancora, in qualche luogo misterioso, le stelle che vedo io? Non riesco, non posso dirgli addio.











Castelfondo, 23 agosto 1943.


Stamattina presto c’è stata la messa per Renzo. Ecco, solo a scriverlo piango di nuovo. Forse non ho mai smesso da ieri. Ho male agli occhi, nello specchio li ho visti rossi come braci.
Il signor curato, don Giuseppe, ha acconsentito a patto di celebrare la messa il mattino di buon’ora, perché Renzo era un partigiano e tutti sanno che lui, invece, sta apertamente dalla parte di quel poco di fascismo che è rimasto. Ieri la zia ci ha litigato e praticamente l’ha minacciato di morte se non si fosse deciso a rendere l’ultimo saluto a Renzo. Scrivo ultimo saluto per modo di dire, perché un vero funerale, con la bara i fiori e la processione non c’è stato, né probabilmente ci sarà mai. La messa almeno ha conferito dignità a questa situazione, ha fatto sembrare più “regolare” la morte di un ragazzo cui nemmeno il prete del suo paese, lo stesso che l’ ha battezzato, voleva rivolgere una preghiera. Ho pensato che in un certo senso, almeno è stato risparmiato ai miei genitori, alla Susanna e a me di veder calare il suo corpo nella terra. La Susanna, che ha appena quindici anni, in questa circostanza si è dimostrata incredibilmente coraggiosa, ha trattenuto le lagrime fino a quando, tornate a casa, non l’ho sentita piangere in camera sua; siamo riuscite abbastanza bene ad essere forti per i nostri genitori. Per la prima volta ho avuto la sensazione che i ruoli si fossero capovolti e fosse compito di noi figlie proteggere mamma e papà.
Una volta sole, ho chiesto alla zia del litigio. Sembra che ieri, dopo aver parlato in canonica della celebrazione per mio fratello, don Giuseppe l’abbia messa alla porta bruscamente, dicendole che non aveva intenzione di onorare un assassino. So per certo, perché lui stesso me l’aveva confidato, che Renzo ha ucciso degli uomini nel corso di diverse imboscate, ma lo stesso si può dire dei todeschi e dei fascisti, che tra l’altro hanno ammazzato e torturato per il solo gusto di farlo. Infine la zia, senza curarsi della gente che passava per la piazza, ha dato del vigliacco al signor curato, accusandolo di continuare a servire le Camicie Nere e il Duce, ormai quasi senza potere. Don Giuseppe l’ha subito strattonata verso la canonica per evitare una scenata davanti ai curiosi che già iniziavano a radunarsi sul sagrato della chiesa ma anche così oggi il fatto era già sulla bocca di tutti perché le grida, pur con il portone della canonica chiuso, si sentivano per vie e androne delle case vicine. Rabbioso, il signor curato ha cercato di calmarsi un poco, rivolgendosi alla zia ha detto di capire quel suo dar di matto in un momento simile e di esser disposto a perdonarla, ma la Matilde ha gridato ancora più forte e urlava di sapere benissimo che cosa stava dicendo e che era lui quello senza timor di Dio, pauroso di dar nell’occhio agli assassini fascisti del paese.
Poi, avvicinandosi al parroco impaurito da quelle grida e preoccupato delle conseguenze, la zia gli ha intimato di stare molto attento, da quel momento in avanti, se per caso fosse rimasto dell’idea di non dir messa per Renzo. Sentendo queste parole il signor parroco alla fine ha ceduto, ma ha voluto la celebrazione la mattina presto, quando per le strade ancora non c’è nessuno e gli unici svegli sono i contadini che lavorano chiusi nelle stalle.
Così stamattina siamo andati in chiesa verso le cinque, senza incontrare un’anima cui dire buondì; il cielo con le sue nuvole scure di acqua pareva partecipare almeno lui al nostro dolore.
Poi tutto si è svolto in fretta, ad aiutare il signor curato al posto dei cherichetti c’era la perpetua sordomuta, unica testimone di una messa clandestina che non potrà mai raccontare; ho visto che don Giuseppe non guardava mai la zia negli occhi.
Adesso che tutto è finito, ripenso alla minaccia della zia pronunciata in canonica. Sarà stato solo un modo per convincere il signor curato o no? Sono troppo avvilita e stanca per pensarci troppo, voglio solo dormire e dimenticare, almeno per un po’.












Castelfondo, 24 agosto 1943 (mattino).

Questa notte ho dormito poco. Continuavo a pensare a Renzo, a lui bambino e ai nostri giochi d’infanzia, mi tornava alla memoria ogni momento passato insieme e pensavo che adesso non c’è più. Non c’è più. Non lo vedrò mai più. Vivo ogni giorno sentendomi immersa in un mondo in cui le voci degli altri, i rumori, rimbombano nel silenzio in cui mi sono ritirata.
Ho ripensato a quel giorno, da bambini, quando mia madre aveva confezionato dei vestiti nuovi per me e lui (la Susanna ancora non c’era) per l’inizio dell’anno scolastico. Il mio era marrone a quadretti, con una cintura in vita, completato da un nastro bianco da appuntare tra i capelli con un tocco di civetteria. Per mio fratello la mamma aveva cucito dei calzoni neri abbinati ad una casacca dello stesso colore, simile all’abito del signor maestro. Eravamo felici. La nostra famiglia non conosceva la miseria in cui viveva tanta gente del paese grazie al lavoro di mio padre che aveva ereditato un forno per fare il pane da suo nonno; tuttavia non eravamo certo ricchi e certi sfarzi erano un lusso anche per noi, perciò quel dono entusiasmò noi bambini, che saltavamo per il corridoio sfoggiando i nostri abiti nuovi. Rivedo ogni cosa come fosse accaduta solo ieri: mio padre davanti al cavalletto della sua macchina fotografica, la prima a giungere in paese e forse in valle (poi sostituita da una Leica) che richiama me e mio fratello davanti all’obiettivo, che grida “Violante!” a mia madre, che non ha mai amato molto farsi fotografare. Di quel giorno rimane una fotografia che conservo, con molte altre, nel cassettone del salotto. Non ho avuto cuore di cercarla, però, so che farebbe ancora più male.
Rammento che, dopo aver scattato quell’immagine, eravamo corsi fuori, noncuranti delle grida di protesta della mamma, per giocare con gli altri bambini che già ci aspettavano. Al mio turno di contare a nascondino, avevo spiato per capire dove scovare i miei amici ed in quel momento avevo visto Renzo, con il suo vestito nuovo, appollaiato sui rami di un vecchio melo, mezzo spaccato dai fulmini, che però a fine estate dava ancora dei piccoli frutti arcigni. A conta finita, nella foga di scendere per fare tana era saltato dall’albero ed era rimasto a terra immobile. Tutti noi bambini eravamo corsi da lui, che piangeva. Gli domandai se si era fatto male da qualche parte. Lui arrabbiato rispose di no, mostrandomi uno strappo nella manica della giubba e minacciandomi se mi fossi azzardata a deriderlo o a raccontare a qualcheduno l’accaduto. Risi per davvero, perché mi minacciava ed era più piccolo di me di tre anni.
Preoccupata per il dispiacere che avremmo causato alla mamma, pensai di far ricucire lo strappo alla Matilde, che pur odiando quei lavori che chiamava “da sartine” avrebbe di sicuro mantenuto il segreto sulla marachella di Renzo. Così ci avviammo verso la casa della zia; di tanto in tanto scorgevo con la coda dell’occhio mio fratello che si asciugava una lagrima, poi guardava verso di me per esser certo che non l’avessi visto. Camminavamo in silenzio e quando lui vedeva un mio accenno di riso, subito alzava il pugno per ricordarmi la minaccia. Alla fine lo strappo fu sistemato e la mamma non si accorse di nulla oppure se ne accorse ma, forse divertita dalla rabbia e dalla disperazione sul viso di Renzo, decise di lasciar perdere.
Anche in seguito, diventati più grandi, ogni volta che si trovava in qualche pasticcio e io lo scoprivo, cercava di intimorirmi in questo modo. E quando, dopo una licenza a casa da soldato, mi confidò la sua intenzione di non presentarsi più al fronte e diventare partigiano, disse scherzando:
“Voglio dirlo io agli altri, quando sarà il momento giusto. Se scopro che parli per prima, ti dò uno di questi!” e chiuse la mano a pugno fingendo di colpirmi.
Ed ora, vorrei sentire di nuovo quelle minacce che tanto mi facevano sorridere. La pendola segna le otto, mia suocera Lucia sarà fuori dalla grazia di Dio per aver sgobbato tutta sola nella stalla; non è stata capace neppure di dire una parola di cordoglio. Vorrei tanto rimanere a letto per sempre, non so come riuscirò ad arrivare in fondo a questa giornata.

Castelfondo, 24 agosto1943 (sera).

Sembra che da questa mattina siano passati secoli. A casa dei miei ho trovato la Susanna con la zia Matilde e mia cugina Maria. Papà se n’è andato di buon’ora a tagliare legna, la mamma si occupava delle faccende. Grazie a Dio sono almeno usciti dal torpore dei primi momenti, ora tentano in ogni modo di impegnarsi in qualcosa per non pensare alla fine di Renzo, anche se è impossibile.
Approfittando di un momento in cui la mamma era scesa in cantina, la zia ha preso a sbraitare sulle colpe del regime, mentre la Maria cercava inutilmente di calmarla. Dà la colpa a Mussolini della morte di mio fratello, di essersi alleato con quella “canaglia todesca”, di aver iniziato la guerra che ha fatto “crepare tanti giovani in Albania, in Russia e fa nascondere sui monti quelli che non hanno nel sangue quell’ideologia da macellai”. La Maria la supplicava ogni minuto di parlare piano e di piantarla lì con quei discorsi di politica per pensare di più alla buon’anima di Renzo e alla perdita subita da tutti noi, ma non si può far tacere la zia. Si è alzata in piedi, camminando avanti e indietro per la stanza, gesticolando nervosamente con le mani mentre parlava.
Stava proprio dicendo che almeno Renzo è morto per la libertà, forse da solo e lontano ma libero di corpo e di spirito, non come tanti altri di questi tempi, quando mia madre è tornata su con delle cipolle in mano e l’ ha guardata perché sapeva che quelle parole erano anche per lei e per mio padre. La zia prima ne ha sostenuto lo sguardo per farle capire che aveva proprio sentito giusto, poi, dispiaciuta per averla fatta restar male in un momento del genere, non si è scusata, ma le ha fatto un gesto con la mano come a dire di non farci troppo caso. La mamma ha sorriso, per un breve attimo, per la prima volta da quando ha saputo della morte di Renzo.
Pur essendo sorelle, la mamma e la zia hanno ben poco in comune. L’ho capito, anni fa, per un episodio particolare e grazie alla discussione che ne seguì.
Un giorno al catechismo il signor curato narrò a noi bambini le vicende di Abramo e dei suoi figli, concepiti con donne diverse. Il fatto mi sconvolse ma, per paura di chiedere a don Giuseppe, famoso tra noi piccoli soprattutto per le punizioni corporali che infliggeva a chi non sapeva a memoria gli insegnamenti del Vangelo o non aveva studiato un passo della Bibbia, preferii domandare a mio padre una volta giunta a casa. Gli chiesi se, per caso, nella Bibbia ci fosse qualche riferimento di tali oscenità compiute da donne che magari vivevano con due o più mariti. Avvampò, divenne rosso come un tizzone e rispose imbarazzato che non ripetessi mai più una cosa simile.
Quella sera, prima di addormentarmi, lo sentii discutere con mia madre. Lei ricamava, non ho mai capito se per vera passione o per abitudine, lui leggeva “La Domenica del Corriere” alla luce della lanterna ad olio, sfogliando rabbiosamente le pagine. Ne sentivo il fruscio dalla mia cameretta, ad un certo punto strappò per sbaglio un foglio, cosa che lo fece arrabbiare ancora di più. Allora chiuse il giornale e riferì a mia madre i quesiti vergognosi di cui avevo parlato, poi sbottò, disse di esser certo che la colpa era tutta della Matilde. La mamma, meravigliata, rispose di non capire che cosa c’entrasse sua sorella con le mie domande. Dalla mia stanza lo sentii ribattere che la Matilde era testarda, senza ritegno, una che si comportava sempre come voleva, una donna che praticamente viveva come un uomo e che per questo doveva avermi riempito la testa di idee malsane su quello che le donne potevano fare.
In seguito, stanca delle mie domande nate dopo aver ascoltato quei discorsi, la mamma mi raccontò la storia della Matilde. Nei primi anni Venti, quando io ero piccolissima, la zia emigrò in Merica, a Buenos Aires, con suo marito. Pier Cesare De Bello, detto Cesare, che nonostante il nome bello non era davvero secondo mia madre, era un uomo di mezza statura, corporatura robusta e quasi grasso, un naso adunco e dei favoriti lasciati crescere senza cura, che sfigurava di fronte alla Matilde, alta, snella e con i lineamenti decisi ma al contempo delicati, che ne facevano una vera bellezza. Apparteneva ad una delle famiglie più ricche della zona che possedeva terreni un po’ in tutta la vallata, ma lo stesso Cesare aveva mandato in rovina i suoi e nessuno sapeva bene per quali motivi; la madre, caduta in disgrazia da un giorno all’altro, era morta di crepacuore.
Lui, forse per cercare di alleviare il suo tormento e allontanarsi dal rancore del padre e dei fratelli, aveva deciso di salpare oltreoceano in cerca di fortuna. Ma appena qualche mese dopo il loro arrivo, scoppiò un’epidemia di tifo che uccise Cesare, lasciando la Matilde sola con mia cugina Maria di un anno ed una montagna di debiti. Il marito infatti doveva dei soldi al proprietario di una terra, un piccolo appezzamento che aveva acquistato promettendo di pagare un po’ per volta. Sperava forse di ricavarne qualcosa lavorando la terra e coltivandola, però la zia scoprì che non valeva nulla e l’aridità del terreno era tale da non permettere a nessun tipo di coltura di attecchire. Lei aveva estinto i debiti con il truffatore lavorando come serva in un’osteria locale. Gli abitanti del villaggio la chiamavano scherzosamente la “Piedra”, la Pietra, un modo per definire il suo carattere ostinato, ed osservavano con curiosità il suo tragitto verso la locanda, ogni giorno per mano ad una bambina sempre più magra; se la trascinava dietro non sapendo a chi affidarla. Prometteva alla figlia, ma in realtà più a se stessa, di ritornare in Italia, cercando di farsi coraggio e tirare avanti. Non era semplice. Avevano le scarpe bucate e vestiti stracciati, ma la zia aveva rifiutato qualsiasi forma d’aiuto, specialmente quello di suo padre.
Dopo la morte di Cesare aveva scritto al paese e la famiglia immaginava in quali condizioni sopravvivessero madre e figlia. I genitori spedivano lettere offrendole aiuto, anche a costo di grandi sacrifici, ma lei rifiutava sempre. Quei rifiuti le costarono parecchi mesi di lavoro, in un paese che non amava, ben lontano dalle speranze che erano state sue e di Cesare.
Solo dopo un anno e mezzo che lavorava all’osteria riuscì a mettere da parte il danaro per pagare la traversata via mare. Al paese la gente era sorpresa per il suo mancato ritorno dopo la scomparsa del consorte e pensavano che la Matilde si fosse già trovata un altro uomo mentre a Buenos Aires, dove la zia aveva conosciuto diversi amici, la vedevano partire con un groppo in gola e la salutavano sventolando fazzoletti sul molo, ammirando la dignità di quella donna che era stata capace di farsi forza.
Tornava al paese che aveva lasciato e tutto ciò che aveva (a parte la vedovanza) stava in una valigia sbrindellata. Decisa a non gravare su nessuno ed a conservare la propria indipendenza, la Matilde si mise alla ricerca di un lavoro e di un posto dove vivere con la Maria.

“Quando la rividi rimasi di sasso. Si era tagliata i capelli e portava le braghe. Mi disse che con il tessuto delle gonne aveva fatto pezze da cucina. Pareva un uomo” mi raccontava la mamma.

Oggi so che mia madre si sbagliava. La zia somiglia ad un uomo non per l’aspetto (i capelli corti, che porta ancora adesso, le donano molto) o l’abbigliamento, quanto per gli atteggiamenti sicuri, il piglio, l’andatura veloce, lo spirito, tutte caratteristiche più dei maschi che delle femmine. Trovò un impiego come postina, lavoro che svolge ancora oggi a turno con un collega, Remo: per fortuna il telegramma che annunciava la morte di Renzo non l’ ha dovuto portare lei alla mamma.
Era un lavoraccio, che la costringeva a pedalare per chilometri in bicicletta per consegnare lettere e pacchi, con qualsiasi tempo. Gli anni trascorsi in Argentina però l’avevano resa più forte e non la spaventava la fatica; con i risparmi comprò una piccola casetta, lasciando l’abitazione di un’amica che l’aveva ospitata nei primi tempi. Spaccava la legna, arava i campi e falciava i prati, era capace di riparare qualsiasi congegno meccanico, leggeva, s’interessava di sport e politica, quello che non sapeva fare lo imparava presto.
Cosa più importante, non aveva più cercato un uomo, benché i corteggiatori non le mancassero. Quando la mattina passava in bicicletta per le vie del paese i giovanotti le urlavano: “C’è posta Matilde?” e fischiavano in segno d’approvazione. Lei rideva, a volte si fermava a parlare. Era giovane e bella, quando fui più grandicella le chiesi perché non desiderasse risposarsi. Un giorno che lei e la Maria erano passate a casa nostra, avrò avuto otto o nove anni, le dissi che sposandosi di nuovo non avrebbe più dovuto lavorare tanto. Lei non si scompose, mi venne vicino e, parlandomi piano come fosse una confessione, mi confidò che lavorare le piaceva molto. Non riuscivo a capire come potesse esser contenta di pedalare per ore sotto la pioggia o di spaccarsi la schiena in lavori che un uomo poteva svolgere al suo posto. Rimasi senza parole, la zia rise del mio silenzio e aggiunse che un lavoro fatto con tutti i crismi dava grande soddisfazione.
Fino ad allora l’unico modello di donna che credevo possibile era quello della ragazza che diventa moglie e madre e si affida in tutto e per tutto alle decisioni del marito: una come mia madre, insomma. Le sue parole mi avevano confuso; era l’unica donna della borgata a vivere sola, in una casa senza un uomo, e sola aveva allevato la figlia. Molte delle altre, anche quelle rimaste vedove, si erano maritate con i primi uomini disponibili per paura di doversi arrangiare o apparire indecorose. Sapevo che quella condizione era la causa di molti litigi familiari, perché soprattutto suo padre (e mio nonno) la voleva sistemata e “normale” come le altre.
Io vedevo la vita della zia come un qualcosa di strano ed allo stesso tempo affascinante e proibito e non sapevo mai bene se imitarla o, in certi momenti, specie quando ne sentivo parlare dai miei, compatirla. Avevo sempre questi pensieri, a volte m’immaginavo trasformata in un ragazzo per quelle folli idee di libertà, di una vita mia, con le mie sole forze su cui contare e non comprendevo perché indossare delle braghe di fustagno fosse peccato.
Una volta il signor curato, vedendola abbigliata da maschio, le ricordò che il Signore aveva stabilito che le donne dovevano indossare vesti e che, se non aveva più gonne in casa, la perpetua sarebbe stata lieta di cucirne una per lei. La Matilde scoppiò a ridere come al suo solito, domandando al signor parroco se per caso i preti, che indossano la tonaca, fossero in realtà delle donne.
Quando era da noi, mentre mia madre cucinava lei leggeva, commentava le notizie del giorno cercando invano di coinvolgere mio padre. Lui non condivideva i modi della Matilde, quel rifiuto di “stare al suo posto” e non di rado cercava di umiliarla, senza tuttavia riuscirci, ricordandole che quelle erano robe da uomini.
Fin dall’inizio, alla zia non è mai piaciuto il Duce e non ha più cambiato opinione. Una volta acciuffò me e Renzo mentre, vestiti con la divisa dell’Opera nazionale Balilla, raggiungevamo il sagrato della chiesa per gli esercizi ginnici del sabato. Ci spogliò e, dopo averci rivestiti con altri abiti, ci disse di andare a giocare, che sicuramente il nostro fisico ne avrebbe tratto maggiore giovamento.

“Sono due porci, quelli lì. Sono stati capaci solo di urlare in piazza alla gente sciocca che li applaudiva” l’ho sentita dire una volta, riferendosi al Duce e Hitler, dopo un comizio di Mussolini trasmesso per radio, seguito da Galeazzo “testa di cazzo” Ciano, come dice lei riprendendo uno sfottò popolare.
Detesta il Duce per molte ragioni, soprattutto per quello che pensa delle donne, e ripete spesso che lei si sente tale anche se non ha ricevuto alcuna medaglia al merito o un premio in danaro durante una cerimonia pubblica per aver partorito dodici figli per la Patria, perché non potrà mai riconoscersi nel “Credere, obbedire, combattere e..partorire!”.
Castelfondo, 5 settembre 1943.

Ho ripreso la solita vita. In questi giorni di tribolazioni la Lucia ha mandato avanti da sola l’allevamento, l’orto e la casa, ormai non posso più approfittare della situazione, benché quella donna non sembri possedere un minimo di sentimento.
Mi sono svegliata alle cinque per mungere le vacche (la malga dove di solito stanno in questo periodo è saltata in aria dopo un bombardamento ed anche i prati non sono sicuri per via degli ordigni inesplosi), lei era già in piedi, pronta a darsi da fare. L’ho salutata e le ho detto di tornare a letto, dopo tutta la fatica per il lavoro fatto al posto mio, lei ha risposto che non tutti possono permettersi di battere la fiacca, che gli animali non devono essere trascurati. Posso capire la sua stanchezza, ma non la rabbia con cui mi parla. Dopotutto non mi sono concessa una vacanza, mio fratello è morto!
“Ogni giorno muore qualcuno in guerra. Se si fermassero tutti a piangere per i loro morti, chissà dove andremmo a finire!” ha detto prima di chiudere la porta della cucina, mentre io restavo lì, incredula, odiando mio marito che prima di partire per il fronte ha voluto sistemare sua madre nella nostra casa, senza domandarmi niente.
L’avevamo accompagnato alla stazione, io con i miei, sua madre con altri parenti. Era una mattina fredda e grigia, il tipico momento in cui viene voglia di piangere. Intorno a noi, altri soldati abbracciavano madri, mogli, bambini che forse non avrebbero più rivisto. I binari erano ingombri di pacchi e zaini su cui erano appoggiati i cappelli alpini e le mantelle in dotazione all’esercito.
Piangevano in tanti, mentre gli uomini salivano sul treno con le loro valigie; alcune donne, all’ultimo momento, quando già i soldati avevano preso posto negli scompartimenti, si erano avvicinate al finestrino e avevano consegnato una fotografia nelle mani dei mariti o fidanzati. Questi, con gli occhi lucidi, le avevano prese tra le mani, poi riposte con cura nella tasca della giacca, vicino al cuore. Io non avevo portato nulla: Carlo non è mai stato tipo da smancerie. Lo guardavo allontanarsi senza provare la disperazione di trovarmi da sola per un lungo periodo.
Da quando ero diventata sua moglie, due anni prima, era calata un po’ alla volta una sorta di freddezza tra noi. Lui si comportava sempre in modo molto formale, quasi fossi una conoscente e non la ragazza che aveva sposato, di conseguenza anch’io avevo perso ogni entusiasmo. Dov’era finito il ragazzo dei tempi del fidanzamento? Dove le sue parole, tutte le premure nei miei confronti? La prima notte di nozze, che avevo sognato per mesi, si era dimostrata una delusione, ed in seguito tra noi accadde ben poco. Voleva che lavorassi nella sua piccola azienda agricola, ma non permetteva che disponessi di danaro mio, così per ogni spesa ero costretta a chiedere a lui. Con il matrimonio mi resi conto ancor di più che quella era la situazione di mia madre e di quasi tutte le donne che conoscevo, a parte la zia.
Così, fu quasi con sollievo che salutai Carlo mentre partiva per la guerra. Andava verso la Russia, in quel luogo dove, ricordava chi aveva fatto la prima guerra mondiale, soldati prigionieri e mandati in Siberia, non si sa bene se gli uomini sono davvero uomini o orsi. I russi indossavano pelli di lupo per proteggersi dal freddo e, raccontavano i soldati, le case erano piccole, fatte di legno o terra, sempre chiuse per non far venir dentro il vento, tanto da sembrare delle galere. Nonostante questi racconti non provavo alcun dispiacere per quella partenza né apprensione per ciò che attendeva Carlo in quel paese, sentivo solo gioia nel ritrovarmi sola e libera dopo tanto tempo.
Il treno s’era già messo in marcia quando lui, affacciandosi dal finestrino, gridò forte un saluto e, prima che il fracasso delle rotaie coprisse le sue parole, mi disse di non avvilirmi troppo perché la guerra sarebbe finita presto e nel frattempo sua madre si sarebbe stabilita alla fattoria. Impietrita, non potei fare altro che salutarlo a mia volta e fare buon viso a cattiva sorte. La Lucia, accanto a me, sorrideva trionfante. Io mi strinsi nel cappotto piena di tristezza, incapace di rassegnarmi a quella convivenza forzata.
È passato il tempo ed ogni giorno, appena la vedo, ho una fitta allo stomaco: c’è qualcosa che me la rende insopportabile anche fisicamente, troppe volte ho subito i suoi rimproveri e le maligne osservazioni. Critica ogni cosa che faccio, dal pranzo alla cura del bestiame, se metto un vestito diverso mi giudica vanitosa, controlla ogni mio spostamento, m’interroga ogni volta che rientro a casa dopo esser stata al paese.
Carlo ha combattuto in Russia ma ormai da mesi gli alpini hanno ripiegato e di lui non abbiamo saputo nulla fino a quando è giunta una cartolina rovinata, con le parole macchiate dall’acqua, che c’informava della sua permanenza in una casa, che lì chiamano isba, di una famiglia russa, che generosamente l’ha accolto quando era mezzo congelato dal freddo. Non sta ancora bene, dice che non sa quando riuscirà a tornare. Mi scrive delle cartoline prive di qualsiasi dolcezza, al contrario alla madre non solo scrive più spesso, ma le invia delle lunghe lettere che lei nasconde e delle quali non rivela il contenuto. Loro due si capiscono al volo, lei gli dà ragione anche quando il torto è evidente.
Mio suocero Ernesto, mancato improvvisamente l’anno scorso, era una persona molto diversa, affabile ed allegra, ha trasmesso a Carlo solamente i suoi tratti, il carattere mio marito l’ha preso tutto dalla Lucia. Se Ernesto rimproverava il figlio per qualche manchevolezza o comportamento sbagliato era immediatamente aggredito dalla moglie e così ogni volta che tentava di alzare la voce per dire la sua su Carlo. Sicché poco alla volta aveva lasciato il compito di allevarlo esclusivamente alla moglie, con il risultato di ritrovarsi con un ragazzo prepotente e superbo, senza rispetto per gli altri e le loro opinioni. Lei ha continuato a viziarlo anche da adulto, anche se in realtà per lui è un rapporto di comodo: Carlo, nonostante quest’attaccamento alla madre, non ha stima delle donne, che anzi considera inferiori nel fisico e nell’intelletto agli uomini, ma grazie all’appoggio della Lucia (pure una donna) ha sempre potuto contare su una spalla pronta a sostenerlo.
Se almeno non fossi stata tanto cieca e stupida prima di legarmi a lui, se il mio amore non avesse avuto il potere di oscurare gli aspetti più meschini della sua personalità, adesso forse non mi troverei in questa situazione. Lui è lontano, dovrei essere triste e non lo sono, vivo con sua madre e ci detestiamo a vicenda. Mi sento così vecchia. Che cos’ho fatto in poco più di vent’anni di vita? Andrà avanti sempre così, senza una gioia, un entusiasmo, un progetto?
Ogni tanto mi lascio trasportare dalla fantasia, immagino di abbandonare questa casa e di essere padrona della mia sorte. Sono sogni che mi aiutano a fuggire almeno con la testa, ma solo sogni. Sono molto stanca, oggi la giornata è stata più faticosa del solito. Nella stalla è nato un vitellino, è stato così strano assistere all’inizio di una nuova vita, mentre la morte è dappertutto.
È passata la Susanna a dirmi che non si hanno più notizie di Vittorio Fabbri, un amico di Renzo, come lui partigiano. Secondo alcune voci è stato ferito e catturato dai fascisti, per altri da un gruppo di todeschi. Siamo rimaste d’accordo di non dirlo a casa, per non dare altre sofferenze alla mamma e al papà. Mia suocera, indifferente, ha continuato a scaricare il fieno per le bestie dall’aia alle mangiatoie. Avrei voluto gridarle che anche lei si metterebbe a frignare, se succedesse qualcosa al suo Carlo, invece sono stata zitta, ho seguito con lo sguardo la Susanna che si allontanava. E avrei voluto andar via con lei.








Castelfondo, 17 settembre 1943.

Piove da giorni, una pioggia furiosa che ha spezzato le piantine dell’orto, spaventato gli animali. Anche Lampo, il mio cane, se ne sta nella stalla con le zampette sul muso, drizza le orecchie ogni volta che sente un tuono. Ieri c’è stato un momento di tregua e ho lasciato uscire gli animali ma è durato poco e mezz’ora più tardi s’è scatenato un temporale. Un fulmine ha colpito il ciliegio che sta davanti all’aia, l’ha aperto in due ed è partito un incendio che per fortuna la pioggia ha spento quasi subito; m’è tornato in mente il melo sul quale si era arrampicato Renzo quel giorno.
Ho radunato le mucche ed il vitellino, i cavalli e le galline che stavano fuori nei recinti conducendoli all’asciutto, poi ho coperto con un telo le piante dell’orto per cercare di salvarne qualcheduna. La Lucia, affacciata alla finestra, ha osservato queste manovre senza aiutarmi. Alla fine, fradicia, sono rientrata in casa e l’ho trovata accanto al focolare, immersa nella lettura di una lettera di Carlo, che svelta ha nascosto nel grembiule appena s’è accorta della mia presenza. Ho lasciato perdere, ma lei fa di tutto per farmi sentire indesiderata a casa mia. S’è girata, fissandomi con quegli occhietti piccoli, forse aspettando una scenata che invece non c’è stata: so che quei due si scrivono tutto, perciò non ho voluto darle l’occasione di scrivere a Carlo che sua moglie è un’isterica. M’è parsa un po’ delusa, dopo ha detto fingendosi dispiaciuta:
“Temo non riuscirai ad andare a casa tanto presto”.
Per casa lei intende quella dei miei, si vede che ha capito quanto odio star qui. Comunque ha ragione, le strade sono grandi pozze di fango e la pioggia non sembra cedere, è impensabile andare fino al paese con un tempo del genere.
Il temporale e la pioggia mi sono sempre piaciuti, fin da bambina, con quella sensazione di pericolo improvviso, la necessità di assicurarsi che tutti fossero al sicuro. Allora la casa era un piacevole rifugio mentre fuori infuriava la tempesta, leggevo un libro mentre mia madre scaldava del brodo e il ticchettio delle gocce sul tetto, ora intenso ora più debole, produceva una melodia sempre diversa. Era bello sapere di essere all’asciutto, che anche i cari animali stavano al riparo nella stalla. Oggi niente è più come allora. Queste mura non mi procurano alcun conforto, anzi mi imprigionano e il tempo m’impedisce di fuggire. Anche mentre scrivo, lagrime argentee scorrono sui vetri delle finestre della camera da letto; da qualche parte, là fuori, Renzo sta sotto questa pioggia. Sono certa che pensano a questo anche i miei genitori perché quando piove è ancora più difficile accettare la morte e avresti voglia di afferrare un ombrello e proteggere dall’acqua chi ormai non può più farlo, anche se può sembrare stupido, ma in questo caso non si può fare nemmeno quello.
La Lucia mi ha riferito solo oggi che, in seguito all’Armistizio proclamato giorni fa, un gruppo di todeschi alloggia alla pensione all’inizio del paese. Loro, spregevoli assassini, membri di una razza infame, qui, accanto a noi, nostri vicini! Dovrei vendicare Renzo, anche se è impossibile sapere se fra loro c’è anche il suo carnefice; ad ogni modo per me sono tutti uguali, farabutti dal primo all’ultimo. Mia suocera, che sa bene quanto odio nutro per questi criminali, se mi presentassi armata alla pensione e con queste intenzioni ne sarebbe certamente contenta: dietro le sbarre, o meglio ancora morta, non le darei più alcun fastidio. Forse esagero. In realtà, non ho neppure molto da perdere, mi trattiene solamente la volontà di non causare altro dolore a chi già soffre abbastanza.

















Castelfondo, 19 settembre 1943.

Oggi finalmente è uscito il sole. Intorno alla fattoria il terreno è ancora tutto fango e c’è molto da sistemare, ma appena ho aperto gli occhi ed ho visto la luce, dopo tanti giorni di acqua e vento, sono stata felice. Nella stalla anche gli animali parevano gioirne, nei recinti saltavano e scalciavano per uscire fuori. Ho salutato la Lucia, già nell’orto a strappare le erbacce, mi ha risposto con un borbottio: si vede che il buon umore causato dalla schiarita non l’ha toccata.
Volevo chiederle altro sui todeschi alla pensione per parlare di qualcosa, ma la sua solita freddezza mi ha fatto cambiare idea. Quanti saranno? Che cosa vorranno mai da noi? Magari tenteranno di farci del male, di derubarci, o peggio. Dovremmo forse essere preparati a difenderci, murare le nostre cose, procurarci delle armi. Dobbiamo resistere soli, abbandonati, con i nemici sulla porta. E dire che anche il re, con tutto il suo danaro, è fuggito con la sua famiglia dopo l’Armistizio.
Mi pare una cosa strana che alla pensione accolgano dei nazisti: l’oste e sua moglie son tanto delle brave persone! Ma credo che non abbiano avuto altra scelta. Sono stata troppo occupata per raggiungere il paese in cerca di notizie e comunque le strade sono ridotte ancora male.
Ultimamente penso sempre meno a Carlo, non sento neppure l’esigenza di sapere che cosa scrive a sua madre. Sono una cattiva moglie, oppure quello che ho scambiato per amore non lo era davvero? E se invece avessi accettato di sposarlo solo per paura di rimanere sola? Sono sempre più confusa; so solo che non attendo più con ansia le sue cartoline, non m’importa di come sta. Questa casa, sua madre e tutto mi sta troppo stretto. Vorrei avere qualcosa di mio e non ho nulla. La “nostra” azienda agricola in realtà è di Carlo, suo il terreno, il danaro, ogni roba. Possibile che debba dipendere sempre da qualche altra persona? Domani pomeriggio, con qualsiasi tempo, andrò dalla Matilde, saprà di certo qualcosa su quei todeschi. La invidio per la sua autonomia, vorrei essere come lei.




Castelfondo, 19 settembre 1943 (notte).

Sono le quattro e mezza di mattina, scrivo con un pezzetto di lapis seduta al tavolo della cucina, accanto alla lampada a petrolio perché è mancata la luce, come succede spesso quando da qualche parte bombardano. Poco fa, mentre dormivo, la Lucia ha gridato il mio nome; sono corsa in camera sua, l’ ho trovata a letto con la febbre alta. Credo sia stato il cambiamento di temperatura a farle male. Nei prossimi giorni mi toccherà accudirla e non lasciarla sola. Rinchiusa in questa casa. Di nuovo. Se non fosse assurdo, penserei a un suo dispetto.









Castelfondo, 24 settembre 1943.

Stamattina mi sono alzata di malumore. La Lucia è malata da alcuni giorni. Il dottore è passato due volte da quando è in queste condizioni, ha detto che tra poco starà meglio, che questo tempo strano ha messo a letto altre persone in paese. Dopo averla visitata, mentre metteva via i suoi strumenti nella valigetta, m’ha domandato come sto. Gli ho risposto bene ma non è rimasto convinto e prima di salire sul suo biroccino per tornare al paese mi ha fatto promettere di passare a farmi vedere da lui, che gli sembro dimagrita e bianca come un lenzuolo. Ho promesso, ma non ci andrò. Non ha una medicina per darmi un po’ di felicità, per alleviare il peso che mi porto dietro giorno e notte.
L’ho salutato e, rimasta sola, sono corsa in camera e senza più riuscire a trattenermi ho preso a singhiozzare, piano per non farmi sentire da mia suocera. Non che a lei importi, sono io che non voglio mostrarmi debole. Devo piangere piano, ed è difficile perché le lagrime mi scoppiano dentro.
Non ho avuto un attimo di pace dopo la morte di Renzo, i miei problemi sembrano non finire mai: non faccio a tempo a finire un lavoro che subito devo sbrigarne un altro, la Lucia ha sempre da ridire anche adesso che sta male. L’allevamento richiede un’attenzione continua e portare avanti tutto da sola è un’impresa, avrei bisogno di qualcheduno per un aiuto, ma non ho il danaro necessario per pagare altre braccia. Avevo pensato alla Susanna, ma ha già il suo bel da fare aiutando in questo periodo il papà al forno e la mamma a casa.
Ci sono le vacche da mungere, il piccolo gregge di pecore da portare a brucare nei prati ancora verdi accanto alla fattoria, dove non c’è pericolo per loro, e da tosare, i conigli d’angora da pettinare (devo tener da parte la lana per fare maglie e calze per l’inverno) le galline da controllare, i cavalli che hanno bisogno di un nuovo recinto, le patate da raccogliere e le assi degli steccati rovinati da cambiare. È un lavoro duro che m’impegna per gran parte della giornata, il tempo rimanente lo devo utilizzare per riordinare la casa, far da mangiare (anche se non tocco quasi cibo) accudire mia suocera, dalla quale non ho mai ricevuto neppure un grazie e che con le sue lagne sembra sia stata colpita da tutte le sventure di questo mondo.
Vorrei poter parlare con qualcuno, ma con chi? Carlo non c’è, ed anche se fosse qui non capirebbe. La fattoria è isolata e non ci sono vicini con cui sfogarsi o almeno per fare due parole, la mia famiglia sembra essersi dimenticata di me, eppure sanno che sono relegata in questa casa e non posso muovermi.
Forse sono un’egoista a pretendere qualcosa da loro, specialmente dopo quello che è successo, ma ne ho così bisogno; mi basterebbero una parola o un sorriso. Eppure tutto questo per me non esiste, sembra che nessuno si renda conto della mia solitudine, mi credono felice e contenta con un marito lontano (ed intendo anche quando è presente) ed una donna autoritaria sempre insoddisfatta, soprattutto di me. Devo ammettere che anch’io so fingere abbastanza bene in presenza di altri, per conservare le apparenze spesso nego, perfino a me stessa, la paura più grande, quella di aver sbagliato tutto nella mia vita e di non poter più tornare indietro, come una nave in mezzo al mare, in balia delle onde, che sogna di essere ancora ormeggiata al porto. Lampo mi ha seguito per tutto il giorno, scodinzolando al mio fianco. A volte credo sia l’unico in grado di capirmi.

Castelfondo, 26 settembre 1943.

La Lucia è quasi guarita ed oggi s’è alzata, perciò sono riuscita a fuggire da questo posto per un po’.
Quali meravigliose sensazioni può dare l’aria fresca del mattino ad una ragazza costretta in casa fino al giorno prima! Tutto appariva nuovo, le piccole gocce di rugiada sugli steli dei fiori di campo, la distesa di prati dorati dal sole, mossi dal vento, un uccellino che, cinguettando, volava rapido nel cielo. Mi sono incamminata verso il paese per alcune commissioni, decisa a fermarmi da mia madre.
Nelle botteghe non si trova quasi più niente e quel poco che c’è costa l’ira di Dio: con la tessera, lo zucchero si paga ormai quaranta lire al chilo. C’è un mercato clandestino nel casale abbandonato dove una volta c’erano le scuole, si trovano salsa di pomodoro, biscotti, spezie, sigarette, tutto a prezzi triplicati rispetto a quanto valgono. Ringrazio il Signore per avere di che sfamare me stessa e la mia famiglia grazie agli animali della fattoria. Chi non ha neppure una gallina per le uova, non può permettersi di comprare nulla e muore di fame.
Dopo la spesa ho raggiunto le vie tanto familiari, con nostalgia dei tempi in cui vivevo qui e queste strade e viuzze mi portavano all’unica casa che allora conoscevo. Ho incontrato mia madre mentre tornava dopo aver fatto il bucato alla fontana, con un mastello di panni bagnati sotto braccio. Anche lei è dimagrita e due rughe mai viste prima adesso le segnano il volto.
È stata contenta di vedermi, l’ ho seguita sull’aia dove appende sempre i panni ad asciugare, aiutandola con le mollette: prima della guerra, ammucchiate in un angolo le pannocchie messe a maturare, su quell’aia noi giovani ballavamo mentre sonava un grammofono. D’improvviso guardandola prendere i vestiti uno per volta dalla mastella mi è parsa tanto invecchiata, così stanca del dolore patito che le ho chiesto subito come stava e anche notizie del papà e della Susanna. Ha detto:
“Tiriamo avanti. Cerchiamo di non pensare per non dar di matto”.
Mio padre non fa che lavorare e oltretutto il forno non funziona bene. La mamma deve aver notato come stavo di spirito perché ha domandato come andava alla fattoria; alla fine le ho confidato tutta la mia solitudine in quella casa e con quella gente, ho detto che speravo almeno in una visita della Susanna; lei s’è stupita di quelle parole, solo quando si è avvicinata di più ho visto che adesso ha al collo un medaglione con la fotografia di Renzo. M’ha risposto che hanno avuto altro da pensare e che ormai questa è la mia vita. A suo dire, con la Lucia basta portar pazienza e sopportare, s’è detta anche convinta che Carlo tornerà sano e salvo dalla Russia e che accomoderemo ogni cosa, specie dopo la nascita di quel bambino che ancora non ho avuto. Sono rimasta di stucco. Come può rimproverarmi di non aspettare un figlio da un uomo che non so neppure se amo ancora, se l’ho mai veramente amato? Non posso credere che lo consideri un modo per tener legato un uomo, per risolvere una situazione matrimoniale in crisi. Magari anche io o i miei fratelli siamo serviti a questo scopo. Chissà se anche mia madre, in fondo, è mai stata realmente felice.
Sulla strada del ritorno ho incrociato la zia Matilde, mi ha invitato a casa sua domani. “Io da quella megera non ci vengo” ha detto ridendo, riferendosi alla Lucia. Abbiamo riso insieme, la sua franchezza mi ha scaldato il cuore. Sarebbe bello se mia madre fosse lei.


















Castelfondo, 8 ottobre 1943.

Ho visto i todeschi. Erano in cinque, stavano in gruppo, fuori dalla pensione. Scherzavano fra loro, ridevano. Dove troverà il coraggio di ridere questa gente che combatte per un uomo matto patocco, per ordine del quale chissà quanti sono già morti, e quanti moriranno ancora, se questa guerra non finirà presto?
Dovevo passare davanti a loro per raggiungere la casa della zia, dalla quale vado spesso in questo periodo. Quanto ho aspettato un’occasione simile, quante volte ho immaginato di trovarmi di fronte a dei soldati todeschi e sparare, ucciderne qualcheduno: la voglia di vendetta, dal giorno della morte di mio fratello, non mi ha mai abbandonato. Sparare così, a caso? Certo, come fanno loro con noialtri nei rastrellamenti, mettendo al muro la gente che per disgrazia passa da quella via o quella piazza e non ha colpe. Quanto avrei voluto farlo, stamattina, se solo avessi avuto una rivoltella, e invece non avevo niente.
Sono andata avanti, camminando velocemente con lo sguardo fiero rivolto in alto fingendo di non accorgermi d’altre presenze. A metà tragitto uno del gruppo, un ragazzone biondo che avevo notato per primo, m’ha visto e con altri dei suoi compagni ha iniziato a fischiare nella mia direzione. Sono avvampata. Come osano, questi maledetti, questi vigliacchi? Solo uno stava in disparte senza partecipare, quasi vergognandosi del comportamento degli altri. La strada era lastricata di pietre, sarebbe bastato prenderne qualcuna e colpirli, ma a che scopo? Farsi uccidere per aver tirato dei sassi a dei todeschi che fischiano non appena vedono una sottana? Sarebbe stata una fine molto stupida.
Così ho lasciato perdere questi propositi e ho tirato dritto con una tale rabbia, ma una rabbia, che quando la zia ha aperto la porta mi ha fissato a lungo, preoccupata e divertita allo stesso tempo.
“E così ti hanno fischiato dietro” ha detto quasi ridendo una volta sentito il mio racconto. Poi, seria, ha detto che bisogna stare attenti, perché quelli dopo l’Armistizio ci tengono d’occhio e hanno paura di qualche rivolta, le ho detto di averne visto solo cinque, ma subito mi sono resa conto dell’assurdità delle mie parole. Ovviamente alla pensione e nei dintorni dovevano essercene altri, tanti di più.
Per un po’ abbiamo cambiato argomento, le ho parlato della vita alla fattoria, del consiglio della mamma sull’avere figli. Lei ha scosso la testa, ha detto che mia madre ragiona come una donna del Settecento.
Alla Matilde Carlo non è mai piaciuto: il giorno dello sposalizio per non vedermi uscire dalla Chiesa a braccetto con mio marito e non sentire i frizzi dei parenti, ha pedalato tutta la giornata per la valle con la bicicletta da postina ed è tornata solo all’imbrunire. Me lo raccontò in seguito la Maria, domandandomi scusa per l’assenza della madre. Erano venuti tutti in Chiesa e poi a casa di mio padre a mangiare polenta e crauti, perfino lo speziale, che di solito non lascia la bottega per nessun motivo e la Nora, la levatrice del paese, che mi sorrideva quasi tenessi già una creatura nella pancia, ma la zia no, non c’era. Allora ebbi un dispiacere, oggi non me ne importa neanche più. La zia m’ ha detto di non farmi venire in mente di fare un figlio se Carlo torna perché allora sì che sarei legata a quell’uomo per sempre. Ha ragione. M’ha confessato d’aver concepito la Maria per sbaglio, costretta dai suoi a sposarsi dopo essersi oramai compromessa e di aver cominciato a volerle bene solo dopo la morte di Cesare, quando con la Maria rimase per più di un anno a Buenos Aires. Prima di allora la vedeva come il motivo che la obbligava a stare insieme a quell’uomo (che in Italia aveva deciso di lasciare, ma poi s’era scoperta in attesa) poi, ritrovata la libertà che le era stata forzatamente strappata, l’odio verso la bambina s’era trasformato in amore. La Maria non sa nulla dei sentimenti di sua madre che, pur amandola, non capisce ancora come quella possa essere sua figlia.
“Va tutti i giorni a messa, pensa un po’. Dice che prega per la mia anima” ha detto ghignando. “Sta ore e ore in camera sua a pensare, a dire il rosario. L’altro inverno ha finito questa coperta di lana, vuole che impari anch’io a ricamare questi ghirigori” ha continuato, mostrandomela. “Io, che prendo in mano ago e filo solo per cucire un bottone, che vado in chiesa sì e no tre volte l’anno!”.
Sono tanto diverse che nessuno le scambierebbe per madre e figlia: la Maria, tanto pia e seria, pare quasi la madre di sua madre. Scherzando la Matilde ha detto che ci dovrebbe essere uno scambio di figlie tra lei e mia madre; sa anche lei quanto ci assomigliamo, anche se la mia forza di carattere è più debole della sua. Le ho detto che con quei modi da suorina la Maria è tale e quale a mia madre, sempre fedele ai dogmi religiosi che non oserebbe mai mettere in discussione. Prima che me ne andassi m’ha messo sottobraccio il giornale di oggi, ed alcuni libri da leggere. Vuole che mi crei degli interessi, che conosca quello che accade nel mondo.
Non volevo tornare alla fattoria prima di aver parlato ancora della storia dei todeschi e di una possibile rivolta in paese. Chissà se accadrà davvero qualcosa; la Matilde dice che molta gente crede ancora nel fascismo della Rsi, ma anche che tanti sono stufi di vivere nel timore di una nuova dittatura e in un’Italia occupata dai nazisti dove non si può parlare e scrivere senza la paura di essere arrestati.
Si vedrà, non so che cosa augurarmi. Da una parte spero che la gente si organizzi sul serio, dall’altra so che sarebbe un disastro perché i paesani sono contadini e allevatori, gente alla buona che quasi non sa tirare di schioppo e per di più dicono che anche i partigiani sono lontani. Quando ho parlato così la Matilde mi ha guardato come volesse dire qualcosa. In quel preciso momento è entrata la Maria e vedendo che stavo andando via ha insistito per accompagnarmi per un pezzo di strada, ho dovuto salutare la zia lasciando tutto in sospeso.
Certe volte ho l’impressione che la Matilde nasconda un segreto, che sappia molto di più di ciò che dice. Dovrò tornare ancora sull’argomento.
Più tardi, mentre camminavo verso casa è successo un fatto curioso. Dove inizia la campagna ho incontrato ancora il gruppo dei todeschi che aspettavano, seduti sul furgone, il ragazzone biondo. Poco più in là l’ho visto armeggiare con i pantaloni, impigliati in un filo spinato che recinta delle coltivazioni. Nella fretta di rispondere al richiamo della natura, non s’è accorto di essersi appoggiato al filo, s’è alzato ed alla fine ha fatto uno strappo alle braghe della divisa. Cercava di coprirsi in qualche modo, ma era talmente goffo da risultare, devo ammetterlo, molto buffo. Sono passata a lato del furgone e girandomi ho fischiato verso di lui, che s’è bloccato di colpo con le braghe in mano, vergognoso. Gli altri ridevano, gridavano al ragazzo biondo frasi di scherno. Il soldato che la mattina non aveva fischiato stava ancora un po’ in disparte, mi ha guardato un attimo ed ho visto che sorrideva.



Castelfondo, 12 ottobre 1943.

L’altra notte ha piovuto di nuovo. Un temporale improvviso e breve, giunto dopo una giornata di sole, che per fortuna non ha fatto danni. Ero addormentata da poco quando il primo tuono mi ha fatto balzare dal letto per lo spavento.
Ormai sveglia, sono rimasta a lungo a pensare, mentre fuori cadeva una pioggia rabbiosa che però ha perso velocemente d’intensità. Il temporale è come un’emozione, violenta all’inizio, carica d’energia e pronta ad esplodere, la cui forza diminuisce in un momento. Lo sguardo di quel soldato mi perseguita, uno sguardo così diverso dalle facce arroganti dei suoi compagni. M’è venuta una voglia inspiegabile di fermarmi, quel giorno, avvicinarmi a lui e raccontargli quanto ci si può sentire soli anche in mezzo agli altri, perché quello era lo sguardo di chi conosce bene la solitudine. Dopo la scomparsa di Renzo, ogni volta che pensavo ad un todesco lo immaginavo come quel ragazzo biondo ed i suoi commilitoni, pieni di boria, così sicuri di sé e dell’ideologia per cui combattono; non ero preparata a vedere qualcuno tanto differente. Soprattutto, com’è possibile che abbia pensato di rivolgere la parola ad un todesco dopo quanto è successo a mio fratello per causa loro? Non è una roba per bene eppure sento il desiderio di ripercorrere quella strada, di rivederlo anche solo per un istante, per riprovare la sensazione di sentirmi ancora viva dopo tanto tempo. Probabilmente lui farebbe finta di non avermi visto, io passerei come se niente fosse..o no? So che non dovrei neppure pensare di parlare con un uomo, specialmente ora che Carlo è lontano ed in più considerata la sua nazionalità, ma che cosa posso farci? Prima di tutto è un todesco. Poi, è ancora un todesco: continuo a ripetermelo ma non serve a niente. Ad ogni modo ho anche paura, perché se mi fossi sbagliata a crederlo diverso, se fosse tale e quale ai suoi compagni, per me sarebbe una grande delusione. Non resta che scoprirlo, se si presenterà di nuovo l’occasione.

lunedì 7 giugno 2010


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Lara

mercoledì 28 aprile 2010

LA STRADA DI CASA A DIMARO

La strada di casa è disponibile per i suoi lettori presso l'edicola di Dimaro, dove si può trovare anche l'altro mio testo, Le Piccole Cose.

mercoledì 31 marzo 2010

AUGURI DI BUONA PASQUA AI LETTORI DE "LA STRADA"



Tanti auguri a tutti i lettori de "La strada di casa" e...continuate a farmi pubblicità! Grazie e auguroni

Lara